Tappa n. 2: Le risposte della politica: le nuove polarizzazioni

Premessa

Anche se spesso non ne siamo per nulla consapevoli le turbolenze di cui abbiamo appena parlato hanno già creato tra gli individui nuove polarizzazioni, nuove contrapposizioni che, più o meno direttamente, si riflettono sui nostri orientamenti politici. Nell’affrontare il nuovo mondo, quello che questo secolo ci propone o ci impone, abbiamo chiaro che tanti parametri, tante coordinate, tante lenti che usavamo per leggere il secolo scorso non vanno più bene. Abbiamo la consapevolezza di non vederci più così bene come un tempo ma non abbiamo ancora capito se siamo affetti da presbiopia, da astigmatismo o da cataratta. Destra e sinistra sono termini superati ma siccome il mondo si è sempre diviso tra favorevoli e contrari a qualsiasi cosa, soprattutto nelle democrazie moderne, non abbiamo ancora capito quali siano oggi le contrapposizioni più rilevanti e come sarebbe giusto chiamarle.

Nel prossimo paragrafo rivedremo velocemente le polarizzazioni classiche del secolo scorso per capire perché non servono più.

In quelli successivi ci occuperemo delle nuove polarizzazioni che sono difficili da individuare correttamente perché le viviamo tutti i giorni in prima persona e, al di là dei dubbi che alcune di esse pongono alla nostra coscienza politica, spesso non abbiamo piena consapevolezza di quanto incidano sui nostri orientamenti.

Ancora più difficile è individuare le etichette giuste, quelle cioè capaci di sintetizzare in una sola parola un mondo di significati sottostanti.

Non sono affatto sicuro di avere individuato tutte le polarizzazioni rilevanti così come non sono per nulla certo di aver trovato le etichette più appropriate per esprimerle e sintetizzarle.

Quello che troverete non è, al momento almeno, niente di più che un’ipotesi, un’idea di un percorso di lavoro che, se dovesse essere ritenuto promettente, potrebbe essere affinato e approfondito anche con strumenti concettuali diversi da quelli in possesso del sottoscritto.

Nell’ultimo paragrafo ci chiederemo se è possibile ipotizzare che le nuove polarizzazioni si aggreghino intorno a due blocchi contrapposti, concettuali prima che politici, che dividono, più o meno radicalmente, la società di oggi e che potrebbero spiegare la morfologia degli schieramenti politici attuali. Da ultimo avanzeremo la possibilità di utilizzare termini nuovi per superare la vecchia contrapposizione destra e sinistra in modo da avere una rappresentazione più realistica di quello che stiamo vivendo.

2.1  Le vecchie polarizzazioni: destra vs. sinistra

Un’altra “cosa” del secolo scorso che non sta molto bene e che, secondo alcuni, è già proprio defunta è la distinzione destra-sinistra.

Sono ormai alcuni anni che politici, osservatori, studiosi di tutto rispetto sostengono che la dicotomia destra-sinistra “andava bene” nel ‘900 ma oggi non serve più o, addirittura, è proprio sbagliata.

I Pentastellati sostengono di essere “né di destra né di sinistra”. Salvini dice che la dicotomia “popolo-elite” ha sostituito quella vecchia di destra-sinistra.

Per le cose che dirò in questo libro sento una sorta di “dovere scientifico” di illustrare la mia posizione ma, per deformazione professionale, di fronte a qualsiasi soluzione mi chiedo sempre quale problema risolva la soluzione proposta.

Nello specifico non mi occupo tanto dei politici, perché il linguaggio della politica è fatto di retorica, di propaganda, di interpretazione strumentale della realtà, spesso ignorando o deformando volutamente i dati di fatto. Tutto questo non deve sorprendere né scandalizzare perché è sempre stato così. Il problema è capire cosa significhi esattamente sostenere che la dicotomia destra-sinistra andava bene nel ‘900 ma non va più bene oggi. Procediamo per gradi.

L’utilità euristica di questa distinzione risiede(va) nel fatto che questi termini rappresentavano una sintesi efficace di tante cose che venivano associate a entrambe le parole.

Se dicevi “sinistra”, nel secolo scorso, sotto-sotto intendevi anche cose come:

–       una posizione più o meno contraria al capitalismo;

–       un sostegno dovuto ai più deboli;

–       un’avversione nei confronti dei ricchi, dei padroni, degli sfruttatori;

–       una vicinanza più o meno stretta ai popoli che facevano o avevano fatto la rivoluzione;

–       un’avversione agli stati imperialisti come gli Stati Uniti;

–       un rispetto “mitico” e acritico per personaggi come Mao, Fidel Castro, Che Guevara e, per molto tempo, anche Stalin;

–       una certa distanza dalla Chiesa cattolica considerata più o meno oscurantista;

–       l’affermazione dei diritti civili come divorzio e aborto;

–       un generale e spesso generico rifiuto di tutte le autorità per affermare la massima libertà di comportamento in tutti i campi (comportamenti sessuali e consumo di droghe);

–       un rispetto pregiudiziale per i sindacati e le cooperative;

–       il primato dei lavoratori e della loro emancipazione;

–       il primato dello Stato rispetto al mercato;

–       l’identificazione della democrazia con la partecipazione, da realizzare in ogni luogo e ad ogni costo.

e molte altre cose di questo genere. Quando dicevi destra dicevi tendenzialmente l’opposto delle stesse cose.

Quindi due termini di una potenza esplicativa straordinaria. Con una sola parola “rappresentavi” un mondo intero: un modo per rappresentare sinteticamente, almeno per l’Italia, le certezze granitiche della Prima Repubblica.

Attenzione, quando scrivo “più o meno” o “tendenzialmente” voglio sottolineare che i due termini non erano una “fotografia” puntuale e precisa della realtà bensì una sua rappresentazione sintetica, una sorta di vera e propria caricatura, nel senso tecnico del termine.

Questo significa che, per esempio, non tutti quelli di destra erano contrari al divorzio e all’aborto; che non tutti quelli di sinistra erano per la dittatura del proletariato oppur contro la Chiesa. Però dicendo destra e sinistra rappresentavi in maniera semplice (e per ciò stesso anche semplicistica) un mondo che tutti più o meno capivano. Soprattutto la distinzione serviva per “parlare” di politica senza troppi fraintendimenti e distinguo, in maniera “veloce”. Nel famoso appello di Nanni Moretti a Massimo D’Alema il regista chiede “D’Alema dì qualcosa di sinistra”, non dice pensa o fai qualcosa di sinistra. Su questo torneremo tra brevissimo.

Significa anche che le categorie utilizzate “colgono” bene le caratteristiche della sinistra europea “classica” ma, probabilmente, non altrettanto bene quelle della sinistra inglese e americana e, forse, anche quelle dei gruppi extra parlamentari degli anni ’70-’80.

In termini tecnici, destra e sinistra, riferiti alla politica sono due idealtipi. Questo è molto importante per risolvere la questione di cui stiamo parlando. Lo stesso Weber sosteneva che gli idealtipi sono un costrutto teorico, uno strumento euristico, che non esiste nella realtà ma viene appositamente “costruito” dallo studioso per facilitare, come diremmo oggi, la narrazione dei fenomeni che stiamo osservando. Proprio per questa ragione gli idealtipi non possono mai essere considerati veri o falsi, giusti o sbagliati, ma, molto più semplicemente, utili o inutili per descrivere, interpretare, raccontare il mondo.

Giusto per intenderci anche capitalismo e socialismo, Stato e mercato, città e campagna sono idealtipi. Non esistono in natura. Sono “etichette” che qualcuno ha inventato per descrivere sinteticamente l’aggregazione di più fenomeni intorno a un concetto chiave. Esistono molti tipi di capitalismo con profonde differenze l’uno dall’altro, così come esistono molti tipi di socialismo. Non esiste al mondo nessun paese in cui sia totalmente assente lo Stato o il mercato. Però quando usiamo questi termini grossomodo ci capiamo.

Allora la questione da cui siamo partiti diventa: è ancora utile la distinzione destra sinistra per capire, interpretare, raccontare il mondo di oggi, così come è stata certamente utile per raccontare quello del secolo scorso?

Una risposta seria non può ridursi ad un sì o un no ma deve risalire alle varie dimensioni che i termini evocano.

Coloro che sostengono che non sia più utile, implicitamente intendono dire che:

–       la lotta di classe “non esiste” più;

–       la contrapposizione radicale tra Stato e mercato non esiste più da nessuna parte;

–       l’identificazione e la pratica religiosa non corrispondono più alle visioni politiche;

–       l’attenzione ai diritti civili è tendenzialmente trasversale;

–       dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine del comunismo non esistono più due blocchi contrapposti;

–       le “cose” rilevanti del mondo di oggi, quelle che discriminano, che dividono, che contrappongono sono altre.

A questo punto conviene abbandonare la contrapposizione destra e sinistra perché ha esaurito la sua funzione euristica.

Una prospettiva certamente interessante, sostanzialmente convincente, ma che presenta almeno due problemi “teorici” di diversa natura.

Primo. Posto che comunque esistono sempre delle discriminanti, delle fratture, dei cleavage, quali sono oggi le dicotomie più significative? A questa domanda cercherò di dare una prima risposta nelle prossime pagine con una avvertenza però. Dire che la contrapposizione destra-sinistra è stata sostituita da quella popolo-elite mi sembra di primo acchito un ritorno al passato di molti secoli, se non di tutti i secoli che l’umanità ha vissuto. Vedremo.

Secondo. Purtroppo la questione è più complessa della valutazione sulla utilità o meno di utilizzare ancora questa terminologia. Se non funziona più non funziona, e al mondo non succede proprio niente, basta aggiornare il linguaggio. Il punto vero però è che destra e sinistra, almeno fino ad oggi sono state, e per alcuni sono ancora, oltre che un idealtipo, il simbolo di un valore assoluto, assiomatico, categorico: un criterio forte di identificazione che ha davvero discriminato le posizioni di milioni di individui.

D’Alema dì qualcosa di sinistra” non è la richiesta della esplicitazione di un programma operativo. E’ un appello al rafforzamento del senso di appartenenza di una comunità che vuole essere di sinistra. Sono moltissimi coloro che hanno votato 5Stelle perché veramente convinti che il PD non fosse più di sinistra e che il Movimento rappresentasse la nuova sinistra.

Conosco persone che ancora oggi non vanno a fare la spesa alla Coop perché è il “negozio dei comunisti”. Del resto Berlusconi nel 1994 ha stravinto le elezioni contro i comunisti che, almeno in Italia, non esistevamo più da tempo. Ci sarebbe piuttosto da chiedersi perché la stessa operazione non gli è riuscita nel 2018 con i grillini che, secondo lui, “sono peggio dei comunisti”.

Destra e sinistra per molti anni hanno avuto una sorta di valenza etica, “manichea”: quelli di sinistra sono i buoni e quelli di destra sono i cattivi. Gli uni sono gli onesti gli altri i disonesti. Quelli di sinistra sono in qualche modo “superiori” a quelli di destra.

Nel cinema, nelle televisioni, nelle arti in generale, ma anche nelle università, essere di sinistra era considerato un segno di superiorità “a prescindere”. Sul piano culturale la sinistra è stata assolutamente egemone per moltissimi anni e ancora adesso ha una posizione dominante.

Per spiegare ai più giovani cosa intendo dire ricordo brevemente quanto mi capitò al tempo del liceo. La professoressa di Storia e Filosofia, donna preparata, politicamente impegnata, con un marito dirigente del PCI, mi aveva preso in simpatia e mi invitava spesso a casa sua per parlare di storia, di filosofia, ma anche e soprattutto di politica. Correva l’anno scolastico 1968-69.

Quando un giorno disse che “la destra è ontologicamente incapace di produrre cultura” tornai a casa molto perplesso, soprattutto perché non avevo la più pallida idea di cosa significasse la parola “ontologicamente” e, allora, non c’era Wikipedia. Non so quanto tempo ci ho messo a capire cosa intendeva dire, ma quando l’ho capito sono rimasto molto contrariato perché, fino a quel momento, l’avevo considerata una donna molto intelligente e preparata. Qualche mese dopo, studiando all’università sociologia, psicologia sociale, antropologia culturale, ma anche Teoria delle Organizzazioni, mi sono reso conto che la Prof. aveva detto una solenne sciocchezza, aveva compiuto un vero e proprio errore logico e metodologico, obnubilata dalla sua forte ideologia di sinistra. Dire che un qualsiasi gruppo sociale, e quindi anche un gruppo politico, non produce cultura è un non senso da ogni punto di vista. Al limite si può discutere comparativamente sulla ricchezza, sulla profondità, sull’articolazione della cultura di questo o quel gruppo, ma non sull’esistenza della cultura in quanto tale. Il ricordo autobiografico serve solo a sottolineare sinteticamente quale era lo “spirito” dei tempi, e non solo nel mio liceo.

La domanda è: “Quanto r-esiste ancora questo “manicheismo etico” o, comunque, quanto destra e sinistra sono ancora criteri di identificazione valoriale e non un semplice idealtipo?”

Perché ancora oggi molte persone si considerano intimamente di destra o di sinistra tanto che i (nuovi) politici si sentono in dovere di sottolineare costantemente: né di destra né di sinistra? Se la questione fosse davvero superata non ci sarebbe bisogno di ricordarlo tutti i giorni. La questione è molto complessa perché dice a tutti coloro che danno per scontato il superamento di questa vecchia dicotomia che forse le cose sono più complicate di quanto non appaia a prima vista.Ma di questa complessità c’è un punto che andrebbe affrontato velocemente: “Quanto l’identificazione con la destra o la sinistra “spiega” ancora oggi il comportamento elettorale dei cittadini?” Per ora mi fermo qui, ma la questione corre come un filo rosso lungo tutto il libro. Non voglio sottrarmi alla domanda, ma se conveniamo che la dicotomia destra-sinistra deve essere analizzata tanto come ideltipo che come criterio di identificazione valoriale, credo abbiamo bisogno ancora di studiare, riflettere e discutere prima di emettere una sentenza di colpevolezza o assoluzione “euristica”.

Su un punto però mi sento di essere categorico. Se dobbiamo sostituire la vecchia e cara dicotomia del secolo scorso con il termine “post ideologico” allora non ci sto.

Post ideologico, termine di gran moda, è, da un punto di vista concettuale un errore in sé, è proprio sbagliato e quindi non può essere considerato, almeno dagli studiosi, più o meno utile.

Cerchiamo di capirci. Il post ideologico non esiste. Esiste e può esistere un superamento delle vecchie ideologie che “non tengono più”. Ma ad una ideologia se ne sostituisce sempre e comunque un’altra. Non esiste al mondo nessun gruppo sociale, nessuna organizzazione, nessun partito ma anche nessuno Stato, che possa sopravvivere senza ideologia. Anche negli Stati autoritari più totalizzanti o nelle democrazie più assolutamente libere e rappresentative esisteranno sempre gruppi, più o meno consistenti, che la pensano diversamente perché hanno un “sistema di valori” diverso da quello dominante. E ideologia, nella sua accezione più tecnica vuol dire proprio “sistema di valori”.

La formulazione corretta dell’errore “post ideologico” dovrebbe essere, anche se suona male, “altro ideologico” o “caratterizzato da una diversa e nuova ideologia”. Che le ideologie totalizzanti del secolo scorso abbiano esaurito o stiano esaurendo il loro ciclo di vita non c’è ombra di dubbio. Ma questo non significa la fine delle ideologie. Allora il punto diventa: quali sono le ideologie emergenti in questo nuovo secolo che sostituiscono quelle del secolo scorso? Una domanda tanto complessa e affascinante alla quale questo libro prova a dare una risposta. O meglio, più che una risposta il libro propone una chiave di lettura, un percorso, una pista di ricerca che, ancorchè sommariamente formulata, dovrebbe consentire di capirne la potenziale utilità.

Qualche decennio or sono il politologo Stein Rokkan individuò alcuni cleavage (fratture, contrapposizioni, dicotomie, polarizzazioni) che spiegavano, secondo lui ma anche secondo i moltissimi che lo hanno seguito, intorno a che cosa emergevano e si costituivano i partiti politici del secolo scorso.

Dopo aver presentato sinteticamente i “cleavage di Rokkan” che, come vedremo, sono stati in larga parte superati dalla storia e da quelle turbolenze di cui ci siamo occupati nel capitolo precedente, mi “avventurerò” (e questa volta il termine è “scientificamente” corretto) a proporre nuovi cleavage,più rispondenti alle caratteristiche dei nostri tempi. Parlerò dunque di:

–       Populisti vs. Elitisti

–       Competenti vs. Incompetenti

–       Sovranisti vs. Cosmopoliti

–       Naturalisti vs. Relativisti

–       Sbrigativi vs. Riflessivi

Ripeto. Etichette e classificazioni assolutamente provvisorie, “sperimentali”, tra l’altro diverse come “spessore” politico, sociologico, di costume.

La posizione di Rokkan può essere sinteticamente ricordata presentando i cleavage che secondo l’autore spiegherebbero la morfologia dei sistemi di partito nelle democrazie del secolo scorso, soprattutto di quella regime elettorale di tipo proporzionale.

Rokkan distingue tra:

–       Centro vs. Periferia

–       Stato vs. Chiesa

–       Capitale vs. Lavoro

–       Interessi agrari vs. Interessi industriali

Che si tratti di una visione datata, di scarsa utilità per leggere il presente, è facilmente dimostrabile. Quando parla di polarizzazione Città/Campagna l’autore si riferisce ai processi di urbanizzazione che tanta rilevanza economica e sociale hanno avuto nel secolo scorso. Anche la dicotomia Stato/Chiesa è largamente superata e, almeno, per quanto riguarda l’Italia, non è più di attualità politica dopo la fine della “unità partitica” dei cattolici nella DC, consacrata ufficialmente con la caduta del Muro di Berlino. Gli interessi agrari contrapposti a quelli industriali sono una buona interpretazione delle dinamiche politiche dell’epoca in cui l’industrializzazione e la manifattura stavano assumendo un peso predominante. Oggi parliamo di agroindustria, di economia di servizi, di tecnologie digitali. Sul rapporto Capitale/Lavoro ci siamo dilungati nel primo capitolo.

Perchè allora richiamare il pensiero di Rokkan che è probabilmente ancora più “vecchio” e superato della contrapposizione tra destra e sinistra? Per una ragione molto semplice che, al di là delle etichette puntuali, si ritrova nell’approccio e nella metodologia di questo autore. L’idea cioè che per capire come si configurano i partiti politici e l’offerta politica, sia importante partire da un’analisi della società alla ricerca di tutti quei temi che dividono, i clevageappunto, la società stessa; che inducono polarizzazioni e contrapposizioni nella coscienza civile che poi, in modi più o meno diretti si riflettono sui comportamenti elettorali. La tesi di fondo, credo assolutamente condivisibile, è che i partiti politici riflettano o cerchino di riflettere al meglio il comune sentire del popolo, dei cittadini, mescolando insieme paure e sogni, valori e interessi, programmi e aspettative.

Se i vecchi cleavagenon sono più utili (anch’essi sono degli idealtipi), perché non riflettono più le divisioni della società di oggi, seguendo alla lettera l’intuizione di Rokkan dobbiamo chiederci quali siano oggi i cleavage,le fratture, le contrapposizioni, le polarizzazioni più rilevanti. Ed è esattamente quello che faremo nei prossimi paragrafi.

 

2.2  Le nuove polarizzazioni

2.2.1   Populisti vs. Elitisti

Premetto che i termini populismo e populisti non mi piacciono per almeno tre ragioni.

La prima è che con il tempo e con la vulgata corrente hanno perso ogni valenza connotativa che invece si ritrova nelle formulazioni “classiche” della Scienza Politica.

La seconda è che nelle democrazie moderne, che affermano che “La sovranità appartiene al popolo”, il confine tra populismo, inteso come una qualche forma di degenerazione politica e populismo inteso come libera espressione della volontà popolare, è labile e spesso difficile da cogliere e da descrivere correttamente.

La terza è che quando questi termini vengono usati in senso spregiativo, come un vero e proprio insulto, si perde di vista che qualsiasi populismo, al di là di tutto, è espressione di sentimenti popolari diffusi ed è anche un indicatore di un qualche fallimento di quelle elites politiche contro le quali i populisti si schierano.

Visto però che il termine viene ormai comunemente utilizzato per rappresentare sinteticamente tendenze politiche presenti in tutto l’Occidente, conviene provare a declinarlo con un certo distacco per cogliere le valenze latenti che il termine esprime.

Intanto si comprende meglio se lo si contrappone al suo contrario “politico” che potremmo definire come elitismo.

Il populismo è sempre una rivolta contro le elites al potere che diventa rilevante quando si organizza in movimento o partito, perché si passa da una protesta generica e indifferenziata del “popolo contro il sovrano” ad una prospettiva di azione collettiva e politica che, in non pochi casi della storia, è riuscita ad arrivare al potere attraverso elezioni democratiche e non con la rivoluzione o la lotta armata. Quindi il populismo, almeno nella sua fase nascente, è una delle tante espressioni che possono assumere le democrazie moderne dove il voto è sostanzialmente libero. Se il voto è libero e, ovunque gli elettori del popolo sono più numerosi dei votanti che appartengono alle elites, una qualche dose di populismo è consustanziale alla democrazia rappresentativa.

Il populismo trova la sua ragione d’essere nella “ribellione” di grandi masse di persone nei confronti delle elites dominanti perché: corrotte, vendute ai poteri forti, impegnate a fare i loro interessi di casta, lontane dal popolo vero che vive le difficoltà della quotidianità. Che questo sia oggettivamente vero (come talvolta accade) o sia soltanto una percezione non fondata su alcuna evidenza empirica è, in termini elettorali, assolutamente irrilevante. Ci troviamo di fronte alla classica profezia che si auto adempie. A forza di dire che i politici sono tutti corrotti, venduti, interessati solo al proprio potere e al proprio benessere va a finire che molti ci credono e si comportano di conseguenza.

Su questo dovrebbero riflettere tutti quegli opinionisti in giacca e cravatta che sui giornali e nei talk televisivi hanno “lisciato il pelo” per anni a tutte le affermazioni e considerazioni qualunquiste basate sul nulla o, meglio, su percezioni infondate, pensando così di essere in, alla moda e controcorrente e oggi si stupiscono se i populisti vincono e vanno al governo (ovviamente oggi si collocano all’opposizione insultando quei populisti che con tanta cura e tanta dabbenaggine hanno teneramente allevato).

Almeno per quanto riguarda l’Italia dobbiamo però dire che il populismo ha una madre ben precisa e riconosciuta che si chiama “società civile”. La prima risposta alla crisi della politica dell’inizio degli anni ’90 è stato, almeno per il centro destra ma non solo, l’appello alla società civile intesa come espressione di competenze specialistiche o, almeno, di esperienze di vita vissute in prima persona e non “semplicemente lette sui giornali come fanno i politici di professione”. Il qualunquismo e il disprezzo per i politici di professione si insinua gradualmente nella “coscienza civile” e si prepara ad esplodere a vent’anni di distanza.

“Società civile” è sostanzialmente un ossimoro. La politica è stata “inventata” tanti secoli orsono proprio per rimediare all’incapacità strutturale e ai danni collettivi che la società civile sapeva produrre.

Pensate alle riunioni di condominio, ai consigli di facoltà, alle riunioni di molte organizzazioni volontarie della cultura, dello sport e del tempo libero, ai consigli di amministrazione di tante imprese dove non esiste una posizione chiaramente dominante o a tutte le forme di grass root democracy (democrazia di base) magistralmente raccontate da buona parte della letteratura americana del secolo scorso e vi renderete conto che mai e poi mai la società civile ha dimostrato una capacità decisionale “migliore” di qualsiasi società politica.

Pensare che i “politici scadenti della prima repubblica” potessero essere degnamente sostituiti da manager, professori universitari, medici o avvocati che non rappresentavano altro che se stessi, senza nessuna esperienza e quindi nessuna rappresentanza delle tante forme di azione collettiva operanti nel nostro Paese (amministrazioni locali, sindacati, associazioni imprenditoriali, associazioni sportive, culturali, religiose, del volontariato) è stato uno dei grandi errori del berlusconismo dilagante della fine del secolo scorso, nonché prodromo alla affermazione degli attuali populismi che, almeno, magra soddisfazione, sono più democratici.

La crisi, non solo italiana, delle elites e dei partiti tradizionali del ‘900 è figlia di tante cose e certamente c’è anche quella che Michel Crozier in un bellissimo libro definiva come “l’incapacità delle elites a riformarsi in funzione dei propri errori”.

C’è ovviamente l’incapacità di prevedere e quindi adeguatamente governare le turbolenze di cui ho parlato nel capitolo precedente.

Ma c’è anche un fenomeno generalizzato legato ai processi di democrazia, all’aumento della scolarizzazione di massa, alla presenza delle televisioni prima e dei socialpoi, che possiamo definire come “la fine della funzione pedagogica dei grandi partiti di massa”. Nel secolo scorso, quello appunto dei partiti di massa, si andava nelle sezioni, nei circoli o nelle parrocchie non per votare a favore o contro le innumerevoli correnti di oggi, ma per capire ed imparare da quelli che ne sapevano di più, i mitici dirigenti di partito. Certo in quelle occasioni si manifestava una notevole manipolazione delle coscienze di tanti sprovveduti ma questi “sprovveduti” avevano comunque voglia di imparare, di informarsi (con le povere tecnologie di comunicazione allora disponibili), di studiare ed avevano un religioso rispetto per chi ne “sapeva di più” perché solo sapendone di più si poteva diventare dirigenti politici, nobilissima (allora) professione.

Oggi con i social un qualsiasi ragazzino senza arte ne parte può accedere, in modo assolutamente democratico, ai vertici delle nostre istituzioni. Ma su questo torneremo tra breve.

 

Tutto quanto siamo venuti ricordando è stato tradotto dalla “intellighenzia” grillina in due espressioni tanto vacue e sbagliate, come dimostrerò in seguito, quanto accattivanti e convincenti che sono:

“Uno vale uno”

“Noi siamo post-ideologici né di destra né di sinistra”.

Con la sua istintiva intelligenza politica Matteo Salvini, l’unico vero leader oggi in “servizio permanente ed effettivo”, ha interpretato in modo molto più consistente ed incisivo la situazione attuale: “Oggi il confronto vero non è più tra destra e sinistra ma tra popolo ed elites”.

 

Una sottospecie della dicotomia populisti vs. elitisti, se volete più di costume che politica, è quella tra “baristi”, intesi come frequentatori dei bar, e “salottisti” intesi come frequentatori dei salotti.

Ma tenendo presente che la politica è sempre anche, e forse soprattutto, espressione dei costumi, conviene dedicare una qualche attenzione a questo (nuovo) cleavage sociale.

 

Il bar era, e per certi versi è ancora, il luogo fisico nel quale ci si incontrava per parlare di tutto ma, soprattutto di calcio, di donne e, saltuariamente per non litigare più di tanto con gli amici con i quali poi bisognava giocare a carte o a biliardo (…Eravamo quattro amici al bar…), di politica. Notoriamente il livello era talmente elevato che l’espressione “chiacchiere da bar” è entrata nel linguaggio comune per indicare la pochezza e la miseria delle argomentazioni e il basso livello complessivo delle discussioni su qualsiasi argomento. Il bar era comunque un piccolo luogo fisico dove si recavano i maschi ad orari stabiliti per un periodo limitato di tempo.

 

Il bar di oggi sono i social(Facebook e Twitter in particolare) che hanno però caratteristiche particolari: sono spazi virtuali senza confini, tendenzialmente infiniti quanto a capacità di accoglienza; non hanno orari in quanto sono aperti giorno e notte; accolgono chiunque, persino le donne; parlano di tutto ma anche moltissimo di politica.

Potremmo definire quindi i sociali “bar tecnologici o digitali del secondo millennio”.

Peccato che a fronte di una straordinaria evoluzione tecnologica non si sia realizzata un’altrettanto straordinaria evoluzione del livello del dibattito. Anzi.

 

Come diceva Umberto Eco (interpretando liberamente il suo pensiero) ma lo diceva anche Tolstoi con riferimento alla diffusione della stampa grazie all’invenzione di Guttenberg: “le nuove tecnologie hanno tanti aspetti positivi ma sono anche una grandiosa socializzazione dell’ignoranza”.

Al bar digitale del popolo si contrappone il salotto delle elites.

Dal punto di vista tecnologico i salotti sono molto più arretrati perché continuano ad usare lo spazio fisico materiale dei giornali e delle televisioni. Intellettuali, opinionisti, giornalisti, più o meno sempre gli stessi, continuano a invadere con la loro presenza giornali e talk showdicendo tutto quello che passa loro per la testa, che di solito non è molto rilevante perché, dovendo dire qualcosa tutti i giorni, non hanno il tempo materiale per studiare, analizzare, riflettere, pensare.

 

L’amico Paolo Pombeni, nel suo libro di successo “Cosa resta del ‘68”, si è dimenticato di un aspetto importante: la politica parlata.

Tutta quella generazione, di cui io stesso faccio parte, ha sempre avuto una grande passione per la politica e in gioventù ha militato in uno dei tanti movimenti allora disponibili. Col tempo quella che giustamente Pasolini aveva definito una “elite borghese” ha fatto carriera, è diventata classe dirigente, come ci spiegavano nei primi giorni di liceo per prefigurarci il nostro destino e, in maniera massiccia, è finita nel ceto (per essere weberiano e non Salviniano) degli opinionisti, scrive sui giornali e parla in televisione.

Da anni i salottisti hanno dismesso la militanza attiva ma non hanno mai smesso di parlare con grande passione di politica nella (loro) convinzione che parlarne equivalga a conoscerla e a farla (per la verità questo riguarda tutti i sessantottini, anche quelli che non sono diventati opinionisti).

 

Ma siccome, come è ben noto, “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” non si sono accorti, per esempio, che finche loro seguivano e titillavano i 5Stelle la Lega cresceva a dismisura.

Non si sono accorti che il grillismo non è di sinistra, come l’attualità conferma ma si capiva anche prima.

Non si sono accorti che pur con la loro vaga e snobbistica posizione di sinistra (quindi per definizione contro Renzi e l’intero PD) sono stati i veri mallevadori della crescita e dell’affermazione dei veri populisti, quelli che la politica la fanno davvero nelle strade e tra la gente.

L’unico vero difetto della dicotomia baristi-salottisti, a differenza di tutte le altre, è che è difficile propendere per gli uni o per gli altri. Sempre di “ignoranza” si tratta.

 

 2.2.2   Competenti vs. Incompetenti

All’inizio pensavo di etichettare questa dicotomia come “ignoranti vs. competenti” assumendo il termine ignoranti nel suo significato etimologico di “coloro che ignorano”. Ma non volendo essere in alcun modo frainteso ho preferito l’espressione più neutra di incompetenti.

In questo caso sarò breve per almeno due ragioni.

La prima è che sotto molti aspetti questa è una sotto-specificazione delle due dicotomie precedenti.

La seconda è che su questo tema, allarmante da tutti i punti di vista e non solo da quello politico, esiste già una vastissima letteratura internazionale.

Mi limiterò quindi a poche considerazioni di carattere più antropologico (nel senso dell’antropologia culturale) che politico.

 

Fino a non poco tempo fa, molto meno di un secolo, l’ignoranza era considerata un disvalore assoluto, a prescindere dalle classi di appartenenza. Una popolazione prevalentemente analfabeta voleva imparare a “leggere, scrivere e far di conto”. Le masse sfruttate volevano imparare e capire per meglio combattere il nemico. Milioni di genitori hanno fatto sacrifici enormi per far studiare i figli. Anche i ragazzi di Barbiana volevano o dovevano studiare per emanciparsi dalla loro miseria e dalla loro emarginazione.

Per decenni lo studio, la cultura, l’apprendimento sono stati i principali “ascensori sociali” e, ovviamente non solo in Italia.

Poi qualche cosa è successo.

Una falsa idea che per essere di sinistra bisognasse agevolare la scolarizzazione di massa fino all’università contando solo sui numeri e sulla provenienza (degli studenti) e non sulla qualità dell’insegnamento e dei livelli di apprendimento.

La diffusione di strumenti di informazione, giornali, televisioni, social confondendo l’informazione con l’apprendimento e la competenza quando è vero il contrario: l’eccessiva informazione crea rumore e confusione e l’eclettismo (dei social) è la negazione della scienza.

Un utilizzo delle nuove tecnologie, dalle play stationai walkmenper arrivare ai computer e ai cellulari che ha “ucciso” il tempo libero delle giovani generazioni. Quando nelle nostre case non c’era nemmeno la televisione nel tempo libero dalla scuola e dai compiti non avevi molte alternative: o ti inventavi giochi e giocattoli (stimolando quindi creatività e inventività) oppure leggevi un libro. Non eravamo certo più intelligenti dei giovani d’oggi. Semplicemente non avevamo a disposizione tutte quelle tecnologie divertenti che fanno passare ore e ore del tempo libero e dedicavamo per forza parte di quel tempo a leggere e a pensare.

 

Anche i modelli culturali di riferimento sono cambiati.

Se studiavi tanto e ti impegnavi potevi diventare ingegnere, medico, avvocato, manager, ecc. sapendo che poi avresti guadagnato piuttosto bene e quindi valeva la pena “sacrificarsi”. Oggi non è più così in parte perché è diventato certamente più difficile accedere alle varie professioni ma, soprattutto, perché i modelli vincenti sono altri: il calciatore, lo chef, la velina, ecc. dove lo studio non serve a niente e dove, se hai successo, guadagni molto più di un professionista affermato.

Gli idoli di molti giovani sono tutto fuorchè i competenti: sono quelli che fanno tanti ma davvero tanti soldi, vanno in televisione, hanno tanti follower sui social.

Con tutte queste “distrazioni” è davvero sorprendente che molti giovani abbiano ancora voglia di studiare, di apprendere e di imparare, solamente per il gusto di sapere e capire di più, visto che le carriere ad alto contenuto di conoscenza non sono certamente le meglio retribuite.

Anche per far politica, non importa se a destra o a sinistra, bisognava impegnarsi e studiare molto anche se non necessariamente all’università. Oggi basta “militare”, esprimere sui social il proprio “vissuto elementare”, avere quattro seguaci in croce che al momento giusto ti clickano, e puoi fare una rapida carriera politica ben remunerata, anche se lasci parte dei tuoi emolumenti (e i contributi?) al fondo per le piccole e medie imprese (sic!)

 

“Uno vale uno” è la quintessenza del primato dell’incompetenza (questa volta mi verrebbe proprio da dire dell’ignoranza) soprattutto quando lo slogan viene traslato dalla politica alla (solita) società civile).

Il principio democratico universale recita: “Una testa un voto” con ciò a significare che il giorno delle elezioni i voti sono tutti uguali a prescindere che vengano espressi dai competenti o dai non competenti, dai ricchi o dai poveri, da chi ha studiato o da chi non ha studiato, dagli onesti o dai disonesti, dai belli o dai brutti, dai milanisti o dagli interisti. Punto. Questa è la democrazia.

Da qui però a desumere che in tutti i campi, dallo sport alla scienza, dalle arti alle professioni, dall’economia alla politica “uno vale uno” ce ne passa.

 

Ne sanno qualcosa i medici che devono rimediare ai disastri di tutti coloro che si curano da soli via internet. Ne sanno qualcosa i professori universitari che di anno in anno si trovano di fronte matricole sempre meno acculturate. Ne sapremo presto qualcosa tutti noi quando vedremo cosa costa collettivamente alla società il dilettantismo militante, incolto ma rivendicato come valore, di molti parlamentari.

Che l’incompetenza e l’incultura, da vero e profondo disagio sociale dal quale bisognava con fatica emanciparsi, sia diventato invece un valore, una cosa di cui non solo non vergognarsi ma da rivendicare con fierezza, è quantomeno triste perché, come minimo, complica enormemente la possibilità di affrontare con intelligenza e lungimiranza le turbolenze in cui viviamo.

Il fatto che il valore dell’incompetenza coinvolga ormai tutti i campi e non solo la politica non è per nulla consolante.

Sul fatto che valorizzare politicamente ignoranza e incompetenza sia profondamente democratico non c’è alcun dubbio: ignoranti e incompetenti sono sempre la maggioranza assoluta di ogni paese (Brexit e Trump )

Che valorizzare l’ignoranza, o coloro che dell’ignoranza fanno una bandiera, come hanno fatto in questi anni molti opinionisti “up to datee di sinistra” (da non confondere con la “puttana pessimista e di sinistra” cantata dal grande Lucio Dalla) sia di sinistra mi pare davvero, intellettualmente, meschino.

Con uno strano e irrispettoso mix tra Marx e Salvini, il nuovo “manifesto” universale potrebbe essere: “Ignoranti di tutto il mondo unitevi”!

 

2.2.3   Sovranisti vs. Cosmopoliti

Il termine “sovranisti” viene spesso usato nel linguaggio comune come sinonimo di populisti.

Il termine “cosmopoliti” deriva da una dicotomia classica, proposta anni addietro dal sociologo delle organizzazioni Alvin Gouldner, che distingueva coloro che sviluppano la loro carriera interamente all’interno della stessa organizzazione, i “locali” (dalla gavetta al vertice) da coloro che costruiscono la loro crescita professionale passando da un’organizzazione all’altra, appunto i cosmopoliti.

Non mi convince la contrapposizione utilizzata normalmente in Italia tra sovranisti ed “europeisti” perché riduttiva ed anche un po’ provinciale. Le cose di cui parliamo sono comuni all’Italia e all’Europa, ma anche agli Stati Uniti: è una questione che riguarda tutto l’Occidente.

In realtà più che una semplice caratterista di un tipo ideale generale, quello che stiamo cercando di individuare in sostituzione del classico destra/sinistra, la polarizzazione “sovranisti” vs. “cosmopoliti” è essa stessa un tipo ideale che sintetizza in chiave evocativa alcune caratteristiche che potremmo richiamare con altre dicotomie quali:

–       monoculturalisti vs. multiculturalisti;

–       localisti vs. aperturisti

–       cristiani vs. mussulmani

–       patrioti vs. collaborazionisti

 

Il termine “sovranisti” richiama l’idea di sovranità almeno da due punti di vista: il primato del popolo rispetto alle elites; il primato della nazione rispetto al resto del mondo e alla cessione, appunto di sovranità, ad organismi terzi che non siano la nazione stessa.

Nel primo caso sovranista è sinonimo di populista mentre nel secondo è sinonimo di patriota.

America first” e  “Prima l’Italia” sono due slogan efficaci per cogliere il senso di questa prospettiva.

 

La contrapposizione monoculturalisti vs. multiculturalisti sottolinea la rivendicazione della difesa delle caratteristiche distintive della “nostra” cultura dall’interferenza/invasione di elementi culturali altri di qualsiasi natura essi siano: lingua, tradizioni, cucina, abbigliamento, stili di vita ecc. La rivendicazione è intesa come valorizzazione, difesa, tutela ma, al contempo, come affermazione della propria superiorità. A differenza dei “multiculturalisti” i “monoculturalisti” considerano ogni forma di contaminazione culturale come un pericolo e un’offesa alle tradizioni e alle proprie radici.

 

La dicotomia “localisti” vs. “aperturisti” rimanda all’idea del valore del “nostro” territorio, identificato ancora una volta con la nazione e con la patria rispetto a tutto ciò che si trova al di là dei confini. E’ al contempo richiamo dei valori e delle tradizioni ma anche paura di tutto ciò che è diverso da noi: “L’Italia è il paese più bello del mondo; la cucina italiana è la migliore al mondo; la lingua italiana è la più ricca del mondo” sostenuto spesso da chi non è mai andato all’estero, non ha mai mangiato in un ristorante etnico o comunque straniero, non parla che l’italiano o, al più, un po’ di inglese stentato.

 

“Cristiani” vs. “Mussulmani” è una dicotomia autoevidente che non si limita però a descrivere due diverse religioni monoteiste ma implica la superiorità dell’una rispetto all’altra confermata, ad esempio, da come viene considerata e trattata la donna nei paesi mussulmani rispetto a quelli cristiani. Richiama, almeno implicitamente, anche l’idea che la religione mussulmana contempli, quando addirittura non imponga, l’uso della violenza per affermare il primato di Allah e di Maometto contro gli infedeli. In questo senso la religione mussulmana, l’Islam intero, è considerato da molti il brodo di cottura naturale del moderno terrorismo, quello che dopo l’attentato alle Torri Gemelle ha cambiato il mondo.

 

“Patrioti” vs. “Collaborazionisti”, quest’ultimo termine un po’ forte e mai usato esplicitamente, rende l’idea del tradimento, ovviamente, della patria. I “collaborazionisti”, come sempre, se la intendono col nemico cercando di migliorare nel contingente le loro personali condizioni di vita ignorando, o sperando che così facendo possano prolungare la condizione di oppressione sulla sovranità nazionale.

 

Ritengo che l’insieme di queste contrapposizioni sia sufficiente a dare l’idea dell’ampia prospettiva sintetizzata dalla polarizzazione “sovranisti” vs. “cosmopoliti”. Prima di chiudere credo valga però la pena di riflettere su un altro aspetto che viene utilizzato molto spesso come accusa o insulto nei confronti dei sovranisti che è quella di essere razzisti o xenofobi. Per molti aspetti mi pare una forzatura, almeno rispetto al passato. La difesa di tutti quei valori che abbiamo appena ricordato non si traduce in attacco diretto ai diversi ovunque essi si trovino, non è una “difesa della razza” quanto piuttosto una richiesta di non interferenza, di non contaminazione. Gli altri, intesi come extra comunitari, neri, mussulmani possono venire da noi se si comportano bene, se lavorano, se si vestono come noi, se parlano la nostra lingua e rispettano le nostre tradizioni e, possibilmente, non pretendono di pregare in una moschea pubblica.

Tutti quelli che si comportano in questo modo, e in Italia, nell’Occidente e anche in Veneto, sono da tempo decine di milioni, vanno bene e non c’è nulla da eccepire nei loro confronti, anzi: possiamo eleggerli nelle nostre istituzioni, farli diventare sindaci, amministratori locali, parlamentari e ministri e, financo, presidenti degli Stati Uniti. Oggettivamente non mi pare concettualmente corretto definire questo atteggiamento, largamente diffuso e non solo tra quelli di “destra”, razzismo o xenofobia. Piuttosto, come diceva una vecchia signora bolognese che si rifiutava di affittare il suo appartamento a persone di colore: “Non sono io razzista, è lui che è negro”. Nella sua brutalità sintetica la signora esprimeva qualcosa che per la verità pensano in molti. Se stanno a casa loro non abbiamo niente contro di loro e non abbiamo nessuna intenzione di far loro del male come più volte in passato abbiamo fatto. Ma se vengono da noi devono essere pochi, educati e rispettosi, il che, tradotto in italiano (ma anche in inglese, tedesco, francese e ungherese), significa che devono “convertirsi” e diventare come noi. Questo è il senso dell’affermazione della signora quando afferma di non essere razzista. Non si tratta, almeno in questa sede, di dare giudizi, di affermare cosa sia giusto e cosa è sbagliato, cosa sia morale o immorale. Molto più semplicemente si tratta di capire come ragionano, come reagiscono, come vivono, anche genuinamente, le paure del confronto con tutto ciò che è diverso, le tante persone che, con le loro convinzioni assiomatiche, costituiscono buona parte di quel popolo che nelle democrazie moderne periodicamente si trasforma in elettorato.

 

2.2.4   Naturalisti vs. Relativisti

Negli ultimi decenni si è diffusa ovunque quella che potremmo chiamare cultura ambientale intesa come difesa dell’ambiente, limiti fisici allo sviluppo, responsabilità dell’uomo nel provocare, almeno indirettamente, disastri ambientali.  La diffusione di questa consapevolezza ha portato con sé, com’era inevitabile, una radicalizzazione delle posizioni. Da un lato troviamo gli ambientalisti ad oltranza, che qui chiamo per comodità “ecologisti”, ma spesso vengono etichettati come “i verdi” contrari ad ogni forma di ulteriore intervento fisico sulla natura (cementificazione diffusa, abbattimento di alberi e foreste, nuove grandi opere) ma, al contempo, favorevoli ad un ritorno ad un passato più agreste, più bucolico, più radicalmente vicino alla natura, anche negli stili di vita quotidiana.

Dall’altro i “possibilisti” intesi come coloro che, pur attenti in qualche modo alle questioni ambientali, ritengono che ci siano ancora ampi spazi per il progresso. Da quelli che negano che l’inquinamento ambientali causi i cambiamenti climatici fino ad arrivare a coloro che, molto più modestamente, ritengono che abbattere qualche albero non sia un dramma soprattutto se nel frattempo ne pianti altri nelle vicinanze. Dagli animalisti che militano anche in forme violente a tutela di tutti gli animali (anche i piccioni), ma non si azzardano ad andare a spiegare ai contadini perché non bisogna ammazzare i cinghiali che distruggono i loro campi, fino a coloro che condannano e vogliono proibire l’uso degli OGM e anzi si vantano di essere “OGM free”. Un mondo vivace, un confronto aspro tra scienza e natura, tra progressisti e conservatori che si riflette indirettamente, ma spesso anche direttamente, sulla politica: ambientalisti, verdi, animalisti da anni si presentano alle elezioni e in più di un’occasione hanno ottenuto risultati significativi.

 

L’attenzione/preoccupazione nei confronti della scienza e di quello che fino al secolo scorso tutti abbiamo chiamato progresso è un fenomeno abbastanza recente. Il primo sospetto che scienza e progresso non fossero sinonimi è venuto ad un certo signor Nobel quando si è reso conto che la dinamite che lui aveva inventato ad uso civile, per facilitare la costruzione di strade e ferrovie, veniva utilizzata per ammazzare più facilmente un numero sempre crescente di persone.

La piena e diffusa consapevolezza però arriva con il lancio della bomba atomica che pone fine alla seconda guerra mondiale.

Di lì comincia a prendere piede una nuova polarizzazione che in breve tempo troverà dei veri e propri talebani a sostegno tanto dell’una che dell’altra posizione: la scienza è sempre giusta e aiuta l’uomo a “battere” la natura migliorando le condizioni di vita di tutti; la scienza, proprio in quanto violazione o manipolazione delle leggi di natura è sempre pericolosa e crea più danni rispetto ai pochi benefici che produce.

Il confronto-scontro tra gli uni e gli altri è praticamente universale nel senso che interviene in tutti i campi nei quali l’innovazione scientifica ha qualcosa da dire: dalla medicina all’agricoltura; dall’edilizia all’ambiente; dal consumo delle risorse allo sfruttamento delle energie rinnovabili. Un dibattito fin troppo noto per essere qui riassunto ma che, sul piano più strettamente politico, ha portato a due “cose” assolutamente impensabili fino a poco tempo fa: la decisione in alcuni paesi di bloccare, di impedire per legge, certi sviluppi della scienza e delle sue possibili applicazioni pratiche; l’idea che staremmo tutti meglio se invece di continuare a inseguire la scienza e il progresso ci rifugiassimo più semplicemente in una confortante decrescita felice.

 

Ma quando parliamo di naturalisti non parliamo solo di scienza e delle sue implicazioni ma parliamo anche di un rispetto più generalizzato delle leggi fondamentali e immutabili della natura.

Alcuni, e non solo i credenti in una qualsiasi religione, sostengono che ci sono cose naturali che non si possono appunto snaturare. L’esempio più classico e frequente è quello della famiglia: la famiglia naturale è quella con padre, madre e due figli. Il fatto che oggi una parte assai consistente di famiglie sia composta da una sola persona non rileva. Così come non rileva che molto spesso i sostenitori di questa posizione mettano insieme due o tre famiglie, forse per dimostrare l’importanza di questa vera e propria istituzione.

Stessa cosa dicasi per l’omosessualità. Con più o meno garbo molti sostengono che l’omosessualità è contro natura dimenticando che tra gli animali, parte integrante della natura, l’omosessualità e ampiamente diffusa e che nell’antichità la pratica dell’omosessualità era considerata del tutto normale anche tra gli umani.

 

Di qui a passare alle questioni di vita e di morte il passo è breve.

L’aborto è esecrabile perché il feto è già un essere vivente che non rientra nel possesso e nella disposizione di chi lo cova in grembo. Il fatto che quando si parla di aborto non ci riferisca al dovere e tanto meno al valore dell’interruzione di una gravidanza, quanto piuttosto all’alternativa tra aborto illegale e aborto legalmente assistito è del tutto irrilevante per i naturalisti.

 

Le posizioni sul fine vita non sono molto diverse. L’eutanasia, in qualsiasi modo e momento è un crimine contro l’umanità; il suicidio assistito è anch’esso un delitto perché la vita è sacra e inviolabile; l’accanimento terapeutico in realtà è un valore perchè prolunga la vita umana e perché attraverso le sofferenze l’uomo espia le sue colpe e si prepara all’aldilà.

 

Ho volutamente banalizzato il problema, non per mancato rispetto di tutti coloro che con grande fatica intellettuale, genuino impegno morale, e assoluta onestà cercano di dipanare questioni difficilissime sul piano etico tanto per i credenti che per i non credenti, ma perché su questi temi la politica si schiera e divide, con straordinaria superficialità e altrettanto straordinaria sicurezza. Gli uni, i naturalisti, sono certi di interpretare al meglio le leggi di natura. Gli altri, i relativisti, pensano che un qualsiasi giudizio in merito sia sempre relativo, anche quando non è ben chiaro relativo a che cosa, se non al diritto di scelta dell’uomo moderno.

 

L’altra caratteristica politica di questa polarizzazione è che, pur essendo assolutamente discriminante come tutte le altre che abbiamo preso in considerazione, è per molti aspetti anche più traversale. L’attenzione ai diritti civili, termine utilizzato per sintetizzare gli argomenti che abbiamo appena trattato, non è nella disponibilità esclusiva di una parte, per intenderci con il vecchio linguaggio, della sinistra ma caratterizza anche una parte, forse minoritaria di quella che per l’ultima volta possiamo chiamare destra.

 

2.2.5   Sbrigativi vs. Riflessivi

“Bando alle ciance” potrebbe essere il motto degli sbrigativi rappresentati da tutti coloro che su qualunque questione sono stufi delle troppe chiacchiere e non vogliono più perdere tempo. Viceversa i riflessivi sono coloro che prima di assumere qualsiasi decisione devono riflettere, se necessario anche a lungo, perchè vogliono essere sicuri di non sbagliare.

I primi tendono a rendere semplici tutti i problemi al contrario dei secondi che tendono a rendere complicate anche le cose chiaramente semplici.

 

Gli sbrigativi hanno una straordinaria capacità di individuare sempre e velocemente i colpevoli di qualsiasi cosa non funzioni. La nostra economia non cresce come le altre? Colpa dell’Europa e dell’euro e, ovviamente, delle banche. C’è troppa disoccupazione? Colpa della Fornero e del cattivo funzionamento dei centri per l’impiego, e di quelli che non hanno voglia di lavorare. Molti italiani non arrivano a fine mese e molti (sempre mitici) piccoli e medi imprenditori non investono come vorrebbero? Colpa delle tasse. Crescono furti, stupri, rapine (cosa statisticamente assolutamente falsa)? Colpa dei migranti. C’è troppa burocrazia? Colpa della casta che nelle maglie di leggi e leggine “sguazza” e ovviamente intanto cura i suoi interessi. Una sorta di generalizzato ma al contempo personalizzato “Piove? Governo ladro”.

Dal punto di vista politico l’atteggiamento degli sbrigativi ha un duplice valore. Intanto individua il nemico da combattere, cosa che in politica aiuta sempre perché favorisce l’aggregazione di tutti coloro che sono contro. In secondo luogo indica le soluzioni più ovvie che però non vengono assunte dai “politici” che, come sempre, vogliono fare i loro affari (sempre sporchi per definizione), tanto non sanno fare altro e non hanno mai lavorato in vita loro. Ci sono troppi migranti? Basta respingerli e costruire muri (che alla lunga non hanno mai funzionato e sono tecnicamente difficili da realizzare in mezzo al mare) e il problema è risolto.

 

Nel campo della giustizia la contrapposizione giustizialisti vs. garantisti rende bene l’idea ma è riduttiva rispetto ad un atteggiamento più generale che non riguarda solo crimini e reati.

 

Per gli sbrigativi i riflessivi sono sempre degli immarcescibili “cacadubbi”.

L’economia non funziona come dovrebbe? E’ vero però bisogna tener conto che nel mondo sono in corso trasformazioni epocali, ormai muoiono di fame molte meno persone, c’è la globalizzazione, se non ci fosse l’euro probabilmente staremmo peggio.

C’è troppa disoccupazione? E’ vero però bisogna tener conto che le nuove tecnologie stanno cambiando le cose rispetto al passato, che i potenziali investitori sono frenati dalle incertezze complessive, che forse per troppo tempo abbiamo sottovalutato l’importanza degli istituti tecnici.

Per carità è vero che molti migranti sono delinquenti e commettono reati, però anche gli italiani non scherzano, soprattutto con i femminicidi; e poi in qualche modo bisogna capirli: fuggono da situazioni disperate, per legge da noi non possono lavorare perché il solito Comma 22 dice che “per lavorare devi essere in regola ma per essere in regola devi lavorare”. E via discorrendo.

 

In questo modo i riflessivi non capiscono mai bene le cause dei problemi, non trovano mai i colpevoli e non riescono mai a individuare i veri nemici. In politica queste cose si pagano perché la gente vuole capire velocemente o, meglio, non è interessata a capire perché si accontenta del fatto che i problemi vengano risolti presto e bene. Di fronte alle dotte e circostanziate argomentazioni dei riflessivi gli sbrigativi rispondono in coro con un sonoro “e chi se ne frega”.

 

L’unico problema esistenziale che hanno gli sbrigativi è quello di come tradurre in voto le loro certezze. Ma, ancora una volta, anche questo non è un problema particolarmente grave. Siccome la maggior parte degli elettori di oggi ha ancora nel sangue i cromosomi del sano pragmatismo contadino (e poi si dice delle differenze politiche tra centro e periferia!) qualcuno di altrettanto pragmatico e con le idee chiare prima o poi lo si trova: che si chiami Trump negli Stati Uniti, Le Pen in Francia, Teresa May in Inghilterra non è, appunto, un problema.

 

Invece, tanto per cambiare, il problema esiste per i riflessivi. Tendenzialmente voterei per quel partito però su certe posizioni non la penso proprio allo stesso modo. L’altro partito non sarebbe male però sui diritti civili mi sembra un po’ indietro. Certo però che se nel primo partito ci fosse una nuova corrente, che magari nel tempo provoca una nuova scissione, potrei continuare a votarlo. E’ indubbio che gli altri, almeno ultimamente, prendono un sacco di voti. Bisognerebbe riflettere e, al limite, fare un po’ di autocritica; ripassare un po’ la storia; promuovere una nuova indagine sociologica per capire; tornare tra la nostra gente e nei circoli (a fare cosa, visto che votano già per noi?).

Un atteggiamento meno pragmatico di quello tipicamente contadino. Peccato però che nel frattempo il mondo vada avanti e gli sbrigativi vincano sempre più spesso le elezioni. Ma almeno si capisce perché da una parte ci sono pochissimi partiti coesi e compatti e dall’altra infiniti partiti letteralmente infestati da una miriade di mini correnti che, nell’attesa di individuare il vero nemico, nel frattempo si scontrano tra di loro. Qualcosa di simile l’aveva già raccontata tanto tempo fa in Italia un certo Alessandro Manzoni quando parlava dei capponi di Renzo.

 

2:3   Un nuovo bipolarismo?

Ammettendo che le dicotomie presentate possano essere una plausibile e ragionevole rappresentazione del mondo che oggi ci circonda, possiamo ipotizzare da un lato che attraverso la ricerca e lo studio possano essere meglio specificate, etichettate ed anche arricchite e, dall’altro lato che possano offrire spunti interessanti per studiosi e specialisti di varie discipline

 

Ad esempio gli psicologi potrebbero spiegarci quali paure ancestrali si nascondono dietro i processi di identificazione con l’una o l’altra polarità dei diversi cleavage.

I sociologi potrebbero spiegarci come i cittadini si aggregano intorno a questi (nuovi?) valori.

Gli economisti potrebbero spiegarci quanto costano le diverse prospettive avanzate dai sostenitori dell’una o dell’altra visione.

Gli storici potrebbero raccontarci quanto c’è di nuovo o di ripetitivo in tutto questo.

I politologi potrebbero spiegarci in che modo le nuove contrapposizioni influenzano il comportamento elettorale.

 

Per parte mia, nella consapevole della limitatezza degli strumenti concettuali presenti nella mia cassetta degli attrezzi (scientifici e culturali) mi limiterò a:

–       avanzare, in chiusura di questa prima parte, una lettura di sintesi ancora una volta weberiana di quanto sono venuto dicendo, arricchita da una lettura “statistico-qualitativa”;

–       intraprendere, nel prossimo capitolo, un viaggio nella politica e nei partiti italiani di oggi cercando di capire come si collocano tra vecchi e nuovi cleavagee come pensano di affrontare le ormai mitiche turbolenze di cui abbiamo parlato nel primo capitolo.

 

Con una metodologia strettamente weberiana proviamo ad aggregare le polarità delle dicotomie che abbiamo presentato nel capitolo precedente in due insiemi contrapposti che per il momento chiameremo Alfa e Beta.

 

L’insieme Alfa ricomprende: populisti, sovranisti, incompetenti, naturalisti, sbrigativi.

L’insieme Beta ricomprende: elitisti, cosmopoliti, competenti, relativisti, comprensivi.

 

Le domande diventano dunque fondalmentalmente due:

–       Possiamo considerare le cinque dimensioni di ciascun insieme come caratteristiche distintive di due tipi ideali contrapposti (per ora ancora Alfa e Beta)?

–       Se rispondiamo affermativamente, quale può essere l’utilità di questa prospettiva?

 

Dando per scontato che la risposta alla prima domanda sia positiva ci dovremmo trovare di fronte a due nuovi idealtipi, “Alfa” e  “Beta”, che dovrebbero cogliere molto meglio di “destra e sinistra” le caratteristiche salienti delle dinamiche e delle concezioni politiche dei nostri tempi.

 

L’ipotesi, che vale per tutti gli idealtipi, è che le cinque dimensioni di ciascun raggruppamento siano tendenzialmente congruenti e si aggreghino quasi automaticamente. Questo però non vuol dire che siano assolutamente escludenti. Chiunque possa essere identificato sostanzialmente con il gruppo Alfa potrebbe altresì presentare una o due caratteristiche del gruppo Beta e, ovviamente, viceversa. Questo non inficerebbe la validità sostanziale dell’idealtipo, così come con la vecchia dicotomia destra-sinistra potevamo trovare, ad esempio, cattolici convinti a sinistra e il modello, la rappresentazione, stava in piedi comunque.

 

Ricordiamoci che nessun modello idealtipico è una fotografia ad alta definizione della realtà ma, al più è uno schizzo, una caricatura.

 

A questo punto si tratta di dare un nome, di trovare un’etichetta ragionevolmente evocativa delle caratteristiche idealtipiche tanto di Alfa che di Beta. In questo caso però purtroppo Weber non ci aiuta. Ci vuole un po’ di fantasia o una diversa metodologia.

 

Se proponessi di chiamare Alfa “Destra” e “Beta” sinistra saremmo punto a capo dimostrando l’inutilità di quanto fin qui fatto sul piano analitico: da un lato non mi piace e dall’altro non mi conviene. Prima di passare oltre però vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che mentre non c’è nessuna continuità tra Beta e la (vecchia) sinistra, trovo invece qualche continuità storica tra Destra e Alfa. Di questo potremmo parlare a lungo soprattutto con il supporto degli storici.

 

Per il momento andiamo avanti utilizzando un’altra metodologia che, chiedendo preventivamente scusa a statistici e metodologici, potremmo definire di “analisi fattoriale qualitativa”.

In sostanza si tratta di verificare, in primo luogo, se le dimensioni e le caratteristiche che abbiamo analizzato presentino forti correlazioni, positive o negative, tanto da giustificare la ragionevolezza/legittimità delle due aggregazioni (Alfa e Beta) che abbiamo ipotizzato.

Fatta questa verifica, che dovrebbe confermare che le due aggregazioni abbiano senso, si tratta ancora una volta di battezzare finalmente Alfa e Beta con un nome e cognome più accattivante. Qui però la metodologia statistico-qualitativa ci aiuta perché prevede due possibilità:

–       o una delle dimensioni degli aggregati Alfa e Beta è dominante in quanto “spiega” forti correlazioni con le altre

–       oppure esiste una ulteriore dimensione latente che lo studioso deve etichettare avendo però a disposizione non solo la fantasia ma alcuni punti di riferimento rilevanti.

Facciamo un esempio per capirci meglio. Nelle ultime elezioni politiche il massiccio voto ottenuto dai 5 Stelle al sud si spiega in larghissima misura con il reddito di cittadinanza. Questo vuol dire che chi ha votato 5 Stelle voleva il reddito di cittadinanza ma anche, e non è esattamente la stessa cosa, che chi voleva il reddito di cittadinanza ha votato 5 Stelle. La stesso concetto si può dire in un altro modo. Chiedendo ai cittadini del sud, prima delle elezioni, se erano favorevoli o contrari al reddito di cittadinanza si sarebbe potuto prevedere con grande precisione l’esito delle elezioni.

A voler essere rigorosi dovremmo chiamare i 5 Stelle non tanto populisti quanto “redittodicittadinanzisti” il che sarà anche concettualmente corretto ma è davvero troppo brutto. Attenzione però che il termine “assistenzialisti” è sostanzialmente un sinonimo.

 

Senza aver fatto alcuna analisi specifica sul campo, cosa che con mezzi adeguati non sarebbe difficile da fare, opinionisti, giornalisti e ormai anche molti intellettuali, hanno già trovato l’etichetta giusta chiamando quelli di Alfa “populisti” e quelli di Beta “europeisti”.

 

Attenzione però che mentre io utilizzo i termini in senso puramente descrittivo, cercando la dizione migliore in quanto più rispondente alle caratteristiche sottostanti, gli osservatori la definiscono in termini politici e valoriali assumendo che ad una maggioranza oggi populista debba contrapporsi una opposizione europeista che superi le non poche divisioni del passato per chi è europeista da destra o da sinistra. Ma questa è politica, previsione, auspicio e non analisi fredda e distaccata che però conferma l’importanza politica anche delle parole e delle etichette.

 

Trovo poco convincente dal punto di vista analitico la dicotomia populisti-europeisti che si ispira alla prima opzione e cioè a quella di assumere una delle dimensioni come “dominante” dell’intero aggregato. Intanto non è omogenea perché il contraltare di populista è elitista e non europeista. E poi mentre “populista” è una dimensione forte di quell’insieme, “europeista” non lo è altrettanto: si potrebbero forse meglio utilizzare termini come “mondialista” o “cosmopolita” (come ho proposto in precedenza) perché la differenza vera tra le due posizioni è quella che potremmo chiamare di chiusura o apertura al mondo e non solo all’Europa. Non sono convinto che sia solo un problema terminologico o di economia delle parole.

 

Comunque, come si dovrebbe essere già capito, personalmente propendo per la ricerca della dimensione latente, di un’etichetta altra forzatamente frutto della fantasia dell’osservatore. E qui casca l’asino.

Non ci sono molti problemi con Alfa. Mi pare infatti che sulla base di tutte le caratteristiche del tipo ideale non sarebbe troppo sbagliato o fuorviante definirli “Neo conservatori reattivi”.

 

Neo perché certamente caratterizzati da forti elementi di innovazione sostantiva e procedurale.

Conservatori perché in realtà richiamano valori del passato come Patria, sovranità nazionale, confini fisici e culturali impermeabili, “autarchia” politica, ecc.

Reattivi perché, a differenza di molti conservatori del passato che si limitavano a rimpiangere o rivendicare i bei tempi andati, i neo-conservatori hanno reagito, si sono attivati ed organizzati, tra l’altro con straordinario successo, per ripristinare quanto prima quei valori e quelle condizioni.

In questo senso continuo a vederci concettualmente una certa continuità storica con la “vecchia” destra senza che questo implichi alcun giudizio di valore.

 

Il problema vero nasce con Beta e non è certamente un problema linguistico o di scarsa fantasia degli osservatori.

In questo caso il vecchio termine sinistra non tiene proprio, da nessun punto di vista: scomparsa la lotta di classe, sconfitto il comunismo, superata la contrapposizione Stato-mercato cosa resta della vecchia sinistra? Praticamente nulla se non ancora pochi richiami sentimentali. Ma chiamarli “nostalgici” non avrebbe molto senso.

 

Anche l’ipotesi di chiamarli “progressisti” in opposizione a “conservatori” non mi convince perché, ancora, non hanno un’idea chiara di come evolveranno le cose sul piano economico e sociale e quindi, meno ancora, hanno una visione, un programma, una teoria. Volendo cercare di etichettarli possiamo dire che sono ragionevoli, aperti al mondo delle persone e delle cose, sono naturalmente contro le discriminazioni di ogni tipo, non sono pregiudizialmente ostili ai flussi migratori, rispettano i contratti e gli accordi sovra nazionali, sono attenti alla disoccupazione e all’equilibrio dei conti e così via.

Tutte dimensioni difficilmente traducibili in etichette evocative che trasmettono uno stato di incertezza e di confusione che è propria in questa fase della vecchia sinistra orfana del socialismo, della socialdemocrazia, financo del comunismo e quindi “del sol dell’avvenir”. E questa situazione in tutta Europa, e non solo, spiega buona parte degli insuccessi elettorali: se tu stesso non sei in grado di sintetizzare la tua posizione con poche, secche e chiare parole, come puoi pensare di convincere gli elettori?

 

Se ci pensate in tutto questo c’è un vero e proprio paradosso.

Beta, a differenza di Alfa, ha tagliato tutti i ponti con il passato e guarda curiosa e disponibile al futuro. Alfa guarda ancora al passato ma sa benissimo cosa vuole per il presente e l’immediato futuro. Quello che consideriamo vecchio potrebbe essere nuovo così come quello che consideriamo nuovo potrebbe in realtà essere vecchio.

 

Alfa è miope e vede bene solo da vicino, ma non vede lontano.

Beta è presbite e vede (relativamente) bene lontano ma da vicino non ci vede proprio più.

 

Termini come: “modernisti”, “nuovisti”, “aperturisti”, “repubblicani”, non sembrano particolarmente convincenti. Alla fine, ma senza troppa convinzione, mi sento di avanzare come proposta almeno provvisoria la definizione di: “Post riformisti disorientati”.

 

“Riformisti” perché negli ultimi cinquant’anni, soprattutto quando sono stati al governo, hanno promosso riforme ragionevoli anche quando erano in contrasto con i canoni della sinistra da cui provenivano e di cui si consideravano i rappresentanti moderni. Pensate, ad esempio, a Schroeder in Germania e, in Italia, al Renzi del jobs act, dell’abolizione dell’art. 18, dell’accettazione della legge Fornero, tutte riforme che gli sono costate le centinaia di miglia di voti di chi, sentendosi di sinistra, si è sentito profondamente tradito e ha scelto 5 Stelle, oppure, esausto, ha optato per la Lega.

 

“Post” non perché non siano più riformisti ma perché nelle condizioni attuali, in quelle che ho chiamato le turbolenze di questo secolo, e di fronte ai nuovi fratture che dividono la società moderna, il loro riformismo sembra incerto, non chiaramente finalizzato, tattico più che strategico, ragionevole più che coraggioso, continuista e non di rottura. Un riformismo non rivoluzionario quando, rispetto a quello che sta succedendo nel mondo da tutti i punti di vista, molte persone ritengono che ci voglia una rivoluzione, una rottura radicale, un cambio di paradigma e non una “banale” transizione o un’accettazione passiva di quello che sta succedendo.

 

Disorientati perché abbandonate le vecchie certezze ideologiche sulle quali hanno costruito un indubbio successo politico oggi non sanno bene come muoversi e non capiscono perché gli altri vincono. La loro crisi generale è quella di chi, abbandonato un “piccolo mondo antico”, non ha ancora ben capito dove è finito.

 

Alla fin fine siamo davvero di fronte ad un paradosso della storia. La forte reattività e combattività dei neo conservatori, rispetto all’incertezza e alla timidezza dei post riformisti, ingenera in molti l’idea che i primi siano i nuovi, i rivoluzionari, quelli del cambiamento, mentre gli altri, che tra l’altro non hanno ancora ben individuato quale sia il loro vero nemico, siano i vecchi, i veri conservatori.

Quelli che hanno sempre avuto della sinistra una visione etica e manichea, idealista più che strutturale, sono convinti, in assoluta buona fede, che i primi siano i veri progressisti e la vera nuova sinistra. Che si tratti di un abbaglio clamoroso è una convinzione che mi porto dietro da tempo. Ma fino ad oggi era poco più di una sensazione, che in quanto tale non riuscivo a spiegare ai miei interlocutori, anche quelli più attenti e attrezzati. Oggi sono soddisfatto perché non so se li ho finalmente convinti ma in compenso mi sono chiarito le idee e mi sento in grado di affrontare qualsiasi confronto con argomentazioni ben più consistenti e fondate di quelle che ho utilizzato fin qui. Ovviamente chiunque può “inventarsi” etichette più fantasiose e accattivanti di quelle qui proposte. Il punto vero però non è l’eleganza dei termini quanto piuttosto la comprensione di quali siano le fratture sociali attorno alle quali si polarizzano oggi le posizioni politiche e, di conseguenza, l’offerta politica.

 

Da questo specifico punto parte la seconda tappa del nostro viaggio alla scoperta dei partiti politici italiani.

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