Una delle più significative novità dell’ultima campagna elettorale è stato l’assoluto silenzio del sindacato che, per altro, nessun osservatore ha sottolineato. Da dicembre in avanti non solo il sindacato non ha dato alcuna indicazione di voto ma ha addirittura sospeso gli attacchi diretti al PD.
Si tratta di una novità assoluta perché fino al referendum costituzionale compreso il sindacato, in particolare la CGIL, ha sempre fatto capire con chi e contro chi stava. Cosa è cambiato questa volta?
La risposta non è semplice ma proverò ad avanzare una serie di ipotesi, solo apparentemente lontane dal cuore della domanda.
Partiamo da MdP. Coloro che hanno dato vita a MdP, tanto a livello nazionale che territoriale, sono inquadrabili in quattro categorie fondamentali: vecchi dirigenti provenienti dal PCI (D’Alema, Bersani, Bassolino, ecc.), giovani dirigenti politici (Civati, Speranza, ecc.), intellettuali di sinistra (Gotor, D’Attorre, Galli, ecc.), dirigenti e quadri della CGIL (questi presenti solo a livello locale) più, ovviamente, i loro seguaci diretti.
Ebbene i primi (ex PCI) da anni non frequentano fabbriche e sindacato.
I secondi non hanno mai frequentato fabbrica e sindacato.
I terzi, gli intellettuali, considerano operai, fabbrica e sindacato una categoria dello spirito che, peraltro, non hanno mai frequentato di persona.
Gli ultimi, invece, vivono quotidianamente a contatto con i lavoratori e sanno, per esperienza diretta, cose che gli altri ignorano o hanno voluto ignorare, e cioè molto semplicemente che ormai da molti anni la maggioranza dei lavoratori, anche quelli iscritti al sindacato, votano in larga misura Lega e 5Stelle.
Veniamo alla FIOM. Qualche anno fa, quando era ancora il segretario, Landini lanciò la proposta della Coalizione Sociale. Ricordo perfettamente quando in televisione dichiarò (cito a memoria):
“Il sindacato non può farcela da solo a tutelare i lavoratori, deve allearsi con la politica, con la sinistra intesa come tutto ciò che nella società è a sinistra del PD”.
Con grande e genuina passione Landini cercò di lanciare una nuova “cinghia di trasmissione” di segno inverso. Dal sindacato alla politica anziché dalla politica al sindacato, come era stato sempre in precedenza. La coalizione sociale fu un fallimento totale, a detta degli stessi dirigenti e quadri della FIOM (ma anche della CGIL), per una ragione molto semplice. La proposta di Landini di collocare esplicitamente il sindacato in politica nell’ambito di un’ampia aggregazione di sinistra “vera” si scontrava (e si scontra anche oggi) con il semplice fatto che la più parte degli iscritti, in politica, si riconosce nella Lega e nei 5Stelle, che non sono certamente di sinistra.
Veniamo alle elezioni. Se il sindacato (CGIL) avesse voluto schierarsi l’avrebbe fatto certamente a favore di Liberi e Uguali, vista la identificazione politica della maggior parte dei suoi dirigenti (la CGIL si è schierata compatta contro il sì al referendum) e i reiterati attacchi al PD e al Governo (vedi Camusso). All’ultimo momento, in campagna elettorale, ha deciso di non schierarsi. Perché? Perché conoscendo benissimo l’orientamento politico dei suo iscritti e dei lavoratori nelle fabbriche ha ritenuto, con saggezza, che sarebbe stato folle trascinare il sindacato in una sconfitta preannunciata, una sconfitta che chi vive quotidianamente nelle fabbriche aveva perfettamente percepito ben prima del 4 marzo.
Possiamo dire che il risultato delle elezioni, limitandoci a considerare il variegato mondo della sinistra, fa chiarezza su molti aspetti caratterizzati fino ad oggi da grande ambiguità.
Partiamo da sindacato. La CGIL non ha perso le elezioni e tantomeno ha perso la sua legittimazione sociale. Ormai da molti anni il sindacato è legittimato da due “cose” ben precise: i servizi che eroga e la sua capacità negoziale e contrattuale. Queste due cose sono ampiamente riconosciute anche da quei lavoratori che in maggioranza votano Lega, 5Stelle, o altri partiti. Per loro sindacato e politica sono due cose diverse e non riconoscono nessun obbligo di (presunta) coerenza tra il voto alle elezioni e l’iscrizione al sindacato. Sono anni che Paolo Feltrin e il sottoscritto sostengono che il problema della CGIL è la sua narrazione, la sua auto rappresentazione. Si definisce un soggetto della sinistra storica quando ormai da anni la sua forza sta nei servizi e nella negoziazione e i suoi iscritti non sono di sinistra. Ma perché i lavoratori che votano a destra non se la prendono con il loro sindacato che si dichiara di sinistra? Per almeno due ragioni: la prima è che a negoziare e a erogare servizi sono bravi, sono presenti in fabbrica, sono sempre al servizio e a disposizione di tutti i lavoratori.
La seconda è che non fanno troppo caso all’ipotesi che il sindacato sia davvero di sinistra. Ricorda un po’ la situazione dell’Emilia Romagna della seconda metà del secolo scorso quando migliaia di piccoli e medi imprenditori sostenevano apertamente il PCI. Non credevano minimamente che il PCI avrebbe fatto davvero la rivoluzione contro tutti i padroni e i padroncini. Nello stesso tempo riconoscevano agli amministratori locali una grande capacità di governo locale, anche a supporto dello sviluppo delle loro imprese.
Un conto è la fabbrica, dove se non sei organizzato, tutelato e coeso perdi. Un conto è la politica dove sei libero di pensare come ti pare.
Un altro elemento di chiarezza riguarda le diverse anime della sinistra.
MdP e Liberi e Uguali non hanno semplicemente perso: ormai sono praticamente finiti. Le loro analisi e le loro proposte tipiche della retro-sinistra, di quella sinistra che ha nel secolo scorso il suo ancoraggio culturale prima ancora che politico, sono state sconfessate dagli elettori. Buoni rapporti con il sindacato, abolizione del jobs act, reintroduzione dell’art. 18, estensione dell’assistenza sanitaria, abolizione delle tasse universitarie, non hanno mobilitato nessuno. Liberi e Uguali non ha sottratto neanche un voto al PD e neppure ha portato un solo astenuto al voto. Più chiaro di così si muore. Liberi e Uguali ha già dimostrato ampiamente di aver capito una parte della lezione, ma solo una parte. Non prefigura per sé alcun futuro autonomo quando dichiara che i 5Stelle sono la nuova sinistra e quindi con loro bisogna convergere. Sono nel giusto quando riconoscono che la sinistra storica (la retro sinistra) di Liberi e Uguali non esiste più perché retaggio di un passato che non torna.
Sbagliano, a mio avviso, quando con sorprendente velocità e deprimente superficialità identificano nei 5Stelle la sinistra del nuovo millennio. In ogni caso si auto collocano fuori gioco.
Anche per il PD il risultato fa chiarezza su molte questioni. Immaginiamo cosa sarebbe successo se non ci fosse stata la scissione. Alle elezioni avrebbe perso ancora di più perché ai voti persi da MdP si sarebbero probabilmente aggiunti i voti di quelli che, usciti D’Alema and company, hanno ritenuto il PD un partito “votabile”. Ma soprattutto la causa della sconfitta sarebbe stata attribuita alla dirigenza del PD, in primis Renzi, perché non ha portato il PD sufficientemente a sinistra. E su questa interpretazione sbagliata si sarebbero allineati anche molti altri esponenti del partito. Da questo punto di vista il voto è di una chiarezza difficilmente contestabile. Al netto della scissione il PD ha sostanzialmente tenuto (intorno al 20%) mentre MdP è scomparsa. Un aspetto che dovrebbero tenere a mente tutti coloro che all’interno del partito si muoveranno per rilanciarlo. MdP e Liberi e Uguali non sono la sponda sulla quale fare affidamento per rilanciare la sinistra in Italia.
Il PD da un lato deve capire dove, come e perché ha perso e dall’altro, come tutti i partiti di sinistra in Europa, quale debba e possa essere lo spazio per una sinistra moderna. Ma su questo ritornerò prossimamente.
Condivido l’analisi. Mi ricordo un detto antico quando si analizzava il voto degli operai delle zone bianche. “Io voto chi mi pare “e mi iscrivo al sindacato per modificare ciò che la politica non offre. Oggi credo che sia così x chi vota lega, 5 stelle anche se in tono minore.