Ha ragione Pombeni quando in un articolo di qualche settimana fa sostiene che la crisi dei progressisti non dipende solo dai partiti ma dall’inaridimento di quelle “sorgenti” da cui i partiti traevano linfa vitale, analisi, proposte, suggestioni, sostegno (stampa, riviste, intellettuali, centri studi, forze sociali). Basta pensare alla qualità e quantità di intellettuali di valore che per anni hanno affiancato i sindacati e che oggi non esistono più.
Ma allora la domanda vera diventa quando e perché questo inaridimento, oggi molto evidente, è iniziato?
La mia risposta è che sul finire del secolo scorso è venuto meno il collante ideologico che, seppure in maniera lasca, per decenni aveva “tenuto insieme” partiti, sindacati, cooperazione, centri studi, intellettuali, le sorgenti appunto. Quel collante era il socialismo che pur nelle sue infinite declinazioni aveva alcuni punti fermi: l’emancipazione dei lavoratori, le grandi riforme (sanità, pensioni, welfare), il contrasto agli aspetti più negativi del capitalismo. Un’ideologia, intesa come sistema tendenzialmente coerente di valori e come visione del mondo che da un lato produceva identificazione e dall’altro induceva le varie sorgenti ad alimentare dibattito e riflessioni sui temi più rilevanti. Con i processi di secolarizzazione e con la fine del socialismo reale l’ideologia socialista, latamente intesa, è andata in crisi ma, più ancora, è andata in crisi l’idea che l’azione politica dovesse/potesse essere guidata da una qualsiasi ideologia. La parola d’ordine, anche per i progressisti che andavano al governo, è diventata “pragmatismo”, tra l’altro nell’accettazione acritica delle logiche e delle dinamiche del mercato (come se i mercati fossero guidati da leggi ferree e immutabili, alle quali bisognava appunto pragmaticamente adattarsi).
L’ideologia, qualunque ideologia, è diventata una connotazione negativa, quasi un insulto, e tutti hanno cominciato a rivendicare con orgoglio il carattere non ideologico delle loro proposte politiche
Il venir meno di una visione di lungo termine, di un sistema di valori in parte vago e confuso ma pur sempre riconoscibile, ha portato all’isolamento, all’autonomizzazione, alla dispersione delle “sorgenti” ciascuna delle quali alla ricerca di una propria ragione d’esistere.
Nel frattempo globalizzazione e rivoluzione digitale cambiavano il mondo senza che i progressisti si rendessero conto di quanto profonde fossero queste due rivoluzioni parallele e senza che la politica, sempre ancorata agli stati/nazione del ‘900, fosse in grado di intervenire.
Se i progressisti, e non solo quelli italiani, vogliono avere un futuro dovrebbero riconoscere esplicitamente due cose:
- Senza un sistema di valori, una visione di lungo termine, un’ideologia, in politica non si va da nessuna parte;
- Senza la possibilità di condizionare almeno in parte le logiche di mercato un pragmatismo vale l’altro.
La cosa curiosa è che i valori condivisi dai progressisti di tutto il mondo sono piuttosto chiari: una società aperta, cosmopolita, interconnessa; una società delle opportunità (di lavoro, di intrapresa, di formazione, di cura, di benessere); una società che fa proprie con attenzione le innovazioni scientifiche e tecnologiche; una società guidata da uno sviluppo sostenibile; una società che riduce le diseguaglianze. Eppure sembra che nessuno sia in grado o voglia mettere insieme questi valori in un quadro coerente, renderli espliciti e “propagandarli” come risultati attesi in sé desiderabili e sui quali cercare da un lato il consenso della gente e dall’altro le linee guida per l’azione politica concreta, non necessariamente nell’ambito di un solo partito. A questa ideologia, certamente più diffusa di quanto non si pensi, e certamente in parte diversa dalla vecchia ideologia socialista, manca ancor un nome, un simbolo, una bandiera per uscire chiaramente e con orgoglio allo scoperto, per aggregare le forze disperse dei progressisti, per rivitalizzare le sorgenti inaridite.
Ma l’altra condizione è che la politica, certamente non quella nazionale, sia in grado di condizionare almeno in parte l’economia. E’ evidente che l’attuale modello economico ha accentuato e continuerà ad accentuare le diseguaglianze. Ma le disuguaglianze si contrastano solo se almeno una parte delle ricchezze prodotte, gestite, estratte dalla finanza, dalle rendite e dai monopoli mondiali possono essere redistribuite passando attraverso varie forme di tassazione delle rendite e delle transazioni finanziarie. Se si accetta il paradigma dominante tra gli economisti che questo non è possibile perché farebbe saltare l’intero sistema, allora non c’è alcuno spazio per i progressisti e non c’è ideologia che tenga.
(già apparso su mentepolitica.it del 11.1.19)