Premessa
In questa fase storica, analizzando la situazione politica di tutto l’Occidente e non solo dell’Italia, assistiamo a due fenomeni davvero interessanti.
Il primo è la ricerca spasmodica di soluzioni vincenti a problemi di cui ignoriamo, in larga misura, le cause, la profondità, le possibili evoluzioni. Dalle soluzioni miracolistiche a quelle più ragionevoli, da “destra o da sinistra”, tutti offrono ricette che in tempi brevi dovrebbero risolvere i principali problemi che la gente si trova a dover affrontare quotidianamente. Le ricette, come spesso avviene in medicina, sono però sempre orientate a “curare” nell’immediato i sintomi senza interrogarsi su quali siano le ragioni profonde e “strutturali” che portano alla manifestazione di quei sintomi. D’altra parte, quando uno ha un feroce mal di testa o di denti, prima vuole che gli passi il dolore e poi si chiede il perché di quella sofferenza.
Il clima politico dell’Occidente, la cifra con la quale interpretare la situazione attuale, è un po’ questo: tante soluzioni, tante ricette, sperando che qualcuna di queste possa funzionare, se non altro come palliativo.
Anche chi osserva con maggiore attenzione quanto sta avvenendo propone interpretazioni tanto “classiche” quanto poco convincenti, ancorchè certamente evocative.
Diversi osservatori con riferimento alla attuale situazione del sistema politico parlano di:
- transizione di regime
- rivoluzione
- cambiamento del paradigma
Personalmente trovo queste chiavi interpretative poco convincenti anche se indubbiamente colgono alcuni aspetti rilevanti del problema che si cerca di capire e interpretare.
L’idea di transizione non mi convince perché ipostatizza, quantomeno implicitamente, una sorta di linearità nella evoluzione dei fenomeni sociali e politici, che mi pare non reggere al confronto di una realtà empirica caratterizzata da forti discontinuità e cesure rispetto a un passato anche recente.
L’idea di rivoluzione non mi convince perché qualsiasi “rivoluzione politica” ha sempre in sé una componente ribellistica di protesta ma, al contempo, una “visione” che motiva e orienta la protesta stessa verso un futuro ideale atteso (“Il sol dell’avvenir”, o un suo equivalente). Mi pare che al momento siano molteplici le espressioni, le forme, le occasioni di protesta ma che manchi sostanzialmente una visione di lungo respiro, una “teoria dell’azione sociale” in sé unificante e consistente.
L’idea di cambio di paradigma non mi convince infine perché, come sosteneva Khun con riferimento alle “rivoluzioni scientifiche”, il cambio di paradigma è sempre proceduto da un “affastellarsi” di “soluzioni anomale al problema” spesso contraddittorie tra di loro, e ci vuole tempo perché queste soluzioni anomale si consolidino in un vero e consistente nuovo paradigma. Sempre sul piano politico mi pare ci troviamo ancora in una situazione in cui il vecchio paradigma mostra certamente delle crepe e delle incongruenze, si affacciano sempre più numerose soluzioni anomale, ma non si è ancora consolidato il, o un, nuovo paradigma.
Trovo quindi più convincente, anche se per molti aspetti meno accattivante, la terminologia di molti studiosi delle organizzazioni degli anni ’70-’80 che, con riferimento all’ambiente all’interno del quale operano le organizzazioni, distinguevano tra ambienti “placidi” e ambienti “turbolenti”. I primi sono quelli in cui tutto è stabile, conosciuto, prevedibile. I secondi sono, al contrario, quello in cui succedono tante cose nuove, in larga misura imprevedibili e, comunque, difficili da comprendere appieno soprattutto con le chiavi di lettura tradizionali. Quello che vale per il rapporto organizzazione-ambiente vale anche per il sistema politico laddove, non dimentichiamo, i partiti politici sono sempre e comunque (anche) organizzazioni che si fronteggiano e si sfidano in un ambiente, quello politico e elettorale, che chiamare turbolento mi sembra renda meglio l’idea.
Da questa premessa nasce la struttura logica e argomentativa di questo capitolo che, data la vastità dei temi e dei problemi da sbrogliare, non pretende ovviamente di essere completo ed esaustivo.
Anzi considero quello che segue poco più di una scaletta ragionata, una serie di appunti che, se saranno ritenuti interessanti e/o “promettenti”, potranno essere ripresi ed affinati in un secondo tempo.
Procederò su due piani che posso così sintetizzare:
– comprendere quali possano essere le radici profonde della turbolenza;
– analizzare, alla Rokkan (per chi lo conosce), quali siano i nuovi cleavages, le nuove fratture sociali, intorno alle quali si organizzano i partiti politici dei nostri giorni.
Le ragioni della confusione, anche cognitiva, del presente possono essere ricondotte a tre dimensioni fondamentali:
– la fine del ‘900
– la globalizzazione
– l’evoluzione tecnologica
che affronteremo distintamente nei prossimi tre paragrafi
1.1 La fine del ‘900
In estrema sintesi mi limiterò a indicare per sommi capi alcuni fenomeni tipici e caratterizzanti del secolo scorso che oggi “non ci sono più” o vengono fortemente rimessi in discussione.
Principalmente in Europa ma, più in generale, in quello che viene considerato “culturalmente” l’Occidente del mondo, il ‘900 si è “distinto” per le seguenti ragioni.
Essere il secolo delle due Grandi Guerre Mondiali che hanno coinvolto con una violenza straordinaria ancorchè non nuova nella storia dell’umanità, milioni di persone, e non solo militari, causando milioni di vittime, e non solo militari, portando alla distruzione di intere città le cui popolazioni hanno vissuto la paura, la fame, la miseria. Per due volte a pochi anni di distanza lo scorso secolo ha conosciuto due guerre “devastanti” tanto sul piano economico che su quello civile. Alla prima guerra e alle “turbolenze” che aveva creato sono seguiti, in buona parte d’Europa, i totalitarismi del fascismo e del nazismo mentre si affermava velocemente la Rivoluzione d’Ottobre. Alla seconda guerra hanno fatto seguito da un lato la democratizzazione dei regimi politici e la crescita dei “Trenta gloriosi” e, dall’altro lato il consolidamento del regime sovietico, del socialismo reale.
Tra le tante conseguenze della seconda guerra mondiale, per molti decenni abbiamo vissuto una guerra mai dichiarata, “la guerra fredda” che si basava su una drastica bipolarizzazione del mondo: il “blocco sovietico” da una parte, e il “blocco occidentale” dall’altro, con una spartizione del mondo che ha influenzato pesantemente, fino alla caduta del Muro di Berlino nel 1989, la politica e la cultura politica di tutti i paesi europei e non solo. Dopo quella data tutto è cambiato e siamo nel 1989.
Non condivido in alcun modo la tesi di chi ritiene che le guerre siano una sorta di “reset biblico” periodicamente utile e necessario perché con la distruzione di persone e cose si creano le premesse per una nuova rinascita.
Mi limito ad osservare che quelli che sono nati intorno alla metà del secolo scorso (babyboomerprima, sessantottini poi) sono la prima generazione in Europa che non ha conosciuto direttamente alcuna guerra sul proprio territorio. Di converso hanno conosciuto diverse persone, in primisi rispettivi genitori, che la guerra in qualche modo l’avevano fatta e/o vissuta; soldati, partigiani, deportati, prigionieri militari, prigionieri politici, esiliati, fascisti, ecc.
Non abbiamo vissuto la guerra ma abbiamo vissuto e interiorizzato le conseguenze della stessa introiettando alcuni valori tendenzialmente universalistici, come quello della pace, dell’Europa come comunità di popolo prima ancora che politica, dell’antifascismo e dell’antiautoritarismo (cioè della libertà personale), della democrazia, del benessere almeno relativo (non si soffre più la fame).
Tutto questo però come vissuto personale è finito con l’avvento del nuovo secolo. I millennialsnon capiscono e non possono giustamente capire cosa hanno significato due guerre mondiali e i successivi dopoguerra che nemmeno i loro padri hanno vissuto. Al massimo, se sono diligenti e curiosi, possono leggersi un po’ di libri di storia o di romanzi dell’epoca. Ma la storia scritta è sempre e comunque profondamente diversa dalla storia orale, quella raccontata da chi l’ha vissuta.
Col tempo la memoria svanisce e si perdono di vista, nell’agire quotidiano e collettivo, i parametri che hanno guidato nel secolo scorso, l’azione politica di milioni di persone. Qualcuno può pensare che tutto ciò sia un bene mentre qualcun altro può pensare che in fondo sia un male. Dal mio punto di vista qualunque sia la posizione è in sé irrilevante. Quello che mi preme sottolineare è che sono venuti meno alcuni parametri fondamentali, alcuni valori, che hanno caratterizzato la vita politica di molte generazioni comunque si schierassero.
Oggi è l’assenza di questi parametri, o anche semplicemente il fatto di dare per scontate conquiste che sono costate lacrime e sangue, che crea una “turbolenza” culturale e cognitiva prima ancora che politica.
Il secolo scorso è stato il secolo delle grandi migrazioni nazionali, europee e internazionali.
Milioni di italiani si sono spostati da una regione all’altra, da una città all’altra, dalla campagna alla città per trovare lavoro. Non solo i tanti meridionali che dalle loro terre si sono mossi per alimentare le grandi fabbriche del nord ma anche tanti “professionisti” che per seguire le opportunità di crescita e di lavoro si sono spostati dalle loro terre, dalle loro radici.
Consistenti sono stati i flussi da diverse regioni d’Italia verso paesi europei come l’Inghilterra, il Belgio, la Francia e la Germania. Ancora una volta non si muovevano solo i diseredati del mezzogiorno d’Italia, ma anche tanti veneti, i nonni e bisnonni di quelli che oggi votano convintamente Lega.
Straordinarie sono state infine nel secolo scorso le migrazioni da tutta l’Europa verso le Americhe, “Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar…”che hanno dato vita negli USA ad un mondo multietnico, multiculturale, multireligioso, multilingue che noi (europei) nemmeno immaginiamo.
Con il nuovo secolo il mondo si è ribaltato: non siamo noi che ce ne andiamo ma sono gli altri che vengono da noi e anche questo crea notevole turbolenza.
Abbiamo rimosso collettivamente la nostra memoria, la nostra esperienza tutto sommato recente, e guardiamo con fastidio a quelli che si muovono oggi, che arrivano a casa nostra e pretendono magari di restarci portando via il lavoro agli italiani.
Trovo davvero penosa e pelosa la distinzione che non pochi fanno tra migranti “umanitari”, quelli che scappano dalle guerre e dalle persecuzioni politiche, e migranti “economici”, quelli che non scappano ma “si limitano” a cercare altrove un altro lavoro.
Il 98% dei nostri migranti erano migranti economici (veneti compresi) e comunque la fame, quella vera e duratura, è essa stessa una guerra.
Pensare di bloccare i flussi migratori mondiali con qualche muro, un po’ di polizia e un po’ di respingimenti non è tanto di destra o di sinistra, da buoni o da cattivi, è semplicemente insensato.
Anche in questo caso dal punto di vista culturale e cognitivo, prima ancora che politico, il “ribaltamento” della direzione dei flussi migratori che caratterizza il nuovo secolo, crea in molti cittadini un’incertezza, un’insicurezza, un’ansia e una paura che nel secolo scorso non conoscevamo.
Il ‘900 è stato il secolo della produzione di massa (fordismo) e del consumo di massa (consumismo) che ha riguardato per molta parte del secolo solo l’Europa e l’Occidente.
Chi ha attraversato quel secolo ha scoperto progressivamente, ricco o povero che fosse, l’automobile, l’energia elettrica diffusa, il riscaldamento a gas, la radio, il giradischi, il frigorifero, la lavatrice, l’aspirapolvere, la televisione, la lavastoviglie, l’aereo, l’aria condizionata in casa e in macchina, i supermercati, i centri commerciali e, verso la fine i computer e i telefonini.
Per quasi tutti i cittadini la possibilità di accedere a questi beni è stata una spinta straordinaria, uno stimolo costante che giustificava tanti sacrifici per migliorare le proprie condizioni di vita con un impulso altrettanto straordinario all’economia e alla produzione industriale, anche per quel mondo rurale che è stato il settore dominante per la prima parte del secolo.
Oggi tutto questo non c’è più e comunque il godimento di tali beni viene dato per scontato da chi nasce con un computer e un telefonino in mano.
La produzione di massa non è più occidentale. I mercati più grandi non sono più occidentali. La produzione e il mercato dell’occidente, per questi beni, sono di “sostituzione” e non di prima acquisizione. I nuovi prodotti, quelli tecnologici, sono globali tanto a produzione quanto a mercati, costano relativamente e in assoluto di meno, abbisognano di meno mano d’opera per essere prodotti.
Quanto tutto questo incida sulle “visioni politiche” è difficile da dire. Le nuove generazioni non devono lottare più di tanto per godere di tutti i beni che il mercato offre e in molti casi non sembrano nemmeno interessati. Il sogno della nostra generazione di avere un’auto propria (la mitica 500 con i sedili ribaltabili o la Dyane) non è più dei giovani che preferiscono un motorino e i voli low costper girare il mondo). Di converso avanza sempre più la preoccupazione che la disoccupazione di massa non sia il frutto dei tradizionali cicli economici, ma sia invece una caratteristica “strutturale” causata dalle nuove tecnologie produttive.
Nell’attesa di capire come andrà a finire, tutto questo crea turbolenza nel “mercato politico” e induce ad avanzare ipotesi come il Reddito di cittadinanza o il Reddito di base che nel secolo scorso non sarebbero stati ipotizzabili nemmeno dagli utopisti o dai marxisti più convinti.
Il ‘900 è stato in tutto il mondo il secolo della lotta di classe, dello scontro tra capitale e lavoro, delle grandi ideologie contrapposte, liberismo e comunismo, declinate in vari modi diversi e articolati: i vari tipi di capitalismo tra cui quello di Stato (italiano ma oggi anche cinese) e delle socialdemocrazie, dei socialismi, dei comunismi reali. Questo grande scontro ideologico e materiale che ha portato alla divisione del mondo in blocchi contrapposti ha ispirato e guidato la politica in tutte le sue articolazioni e ramificazioni: dai grandi Stati ai piccoli comuni, dagli equilibri geopolitici a tutte le tornate elettorali, anche quelle amministrative e locali.
Ma è stato anche, per l’Europa almeno, il secolo che ha “inventato” il welfare, che grazie alle grandi lotte sociali, guidate in primisdai sindacati, ha portato le pensioni, l’assistenza sanitaria, le integrazioni al reddito nei periodi di crisi.
Anche tutto questo è finito.
La lotta di classe non esiste più perché non esiste più la classe proletaria in sé e per sé. Non è che non esistano più le classi. Semplicemente la classe operaia si è ridotta nei numeri, è più disarticolata nei luoghi di produzione che occupano sempre meno individui, si è frastagliata lungo professionalità sempre più tecniche e qualificate. Tutto questo ha fatto venire meno la tradizionale coscienza di classe ed ha portato progressivamente a ricercare soluzioni individuali rispetto a quelle collettive.
La classe più socialmente disagiata oggi non è quella operaia bensì quella dei precari, dei disoccupati, dei lavoratori extra comunitari che secondo le concezioni marxiste-leniniste costituiscono un Lumpen Proletariatpoliticamente inaffidabile, in quanto facile preda di tutte le demagogie reazionarie. Ma un “nuovo” proletariato numeroso che nelle democrazie vota liberamente. La distinzione ormai classica tra garantiti e non garantiti non è (solo) un’accusa ai sindacati per la loro incapacità di tutelare i più deboli, ma è anche e soprattutto la sintesi della fine di un mondo che non tornerà più.
Ma anche il welfare diffuso incontra crescenti difficoltà. I costi sempre più alti legati all’aumento dell’aspettativa di vita sono sempre meno sostenibili da una popolazione che invecchia e da paesi sempre meno ricchi rispetto ai paesi emergenti. Alzare l’età pensionabile è di destra o di sinistra, oppure è semplicemente un modo più ragionevole di allocare risorse scarse?
Per quanto riguarda la fine della lotta di classe gli impatti che crea sulla turbolenza del sistema politico sono evidenti. In molti si definiscono post ideologici così come molti dichiarano che i problemi vanno affrontati senza il velo distorcente dell’ideologia.
Una serie di sciocchezze senza senso e senza alcun fondamento che però attecchiscono facilmente nel loro semplicismo convincente.
Nessuna organizzazione, nessun partito, nessun sistema politico può vivere senza ideologia, intesa come “sistema di valori” che indirizza i comportamenti individuali e collettivi.
Quello che è finito sono le grandi ideologie totalizzanti del secolo scorso, mentre faticano ad affermarsi e ad essere concettualizzate ed etichettate le ideologie emergenti.
Ma siccome questo è il tema specifico del prossimo paragrafo e delle conclusioni del capitolo, per ora mi fermo qui.
Gli attori politici più rilevanti del secolo scorso sono stati le nazioni.
Le nazioni si sono fatte la guerra l’una contro l’altra. Le nazioni sono state occupate da altre nazioni.
Le nazioni si sono divise e poi ricompattate (Germania) oppure sono state accorpate e poi si sono divise (Jugoslavia). Le nazioni hanno cercato il loro “Lebensraum”, il loro spazio vitale, al di là dei confini. Le nazioni hanno combattuto per la loro liberazione dall’invasore. Le nazioni hanno firmato prima le dichiarazioni di guerra e poi i trattati di pace.
Le nazioni hanno dunque rappresentato l’architrave istituzionale fondamentale di tutto ciò che di importante è successo nel mondo, soprattutto in quello occidentale.
E’ così vero che anche le esperienze politiche e economiche di maggior respiro avevano ed hanno ancora il termine nazione nella loro denominazione:
– l’assemblea delle Nazioni Unite;
– l’internazionale comunista (prima, seconda e terza, ma anche l’internazionale liberale);
– le imprese multinazionali.
Le nazioni, come è noto, sono sopravvissute al passaggio del secolo ma è lecito domandarsi quanto siano ancora in grado di rappresentare e governare le dinamiche economiche, sociali e culturali del nostro tempo. Alcuni richiami valgono, se non altro, a far sorgere qualche dubbio.
Con la fine del secolo scorso è finito il dominio assoluto, politico ed economico, dell’Occidente.
Oggi tra gli attori più importanti e dinamici annoveriamo, ad esempio, Cina e India entrambe con circa un miliardo e mezzo di abitanti ciascuna. Che senso ha un confronto internazionale tra questi due colossi e nazioni come Malta, la Slovacchia, la Norvegia, l’Austria, ma anche l’Italia e la Germania, che al massimo raggiungono gli 80 milioni di abitanti, cioè molto meno di una qualsiasi “provincia” cinese o indiana?
A questa considerazione di stampo potremmo dire amministrativo-istituzionale possiamo aggiungere una considerazione economica. Che senso hanno tante piccole nazioni in una situazione di globalizzazione dove sono globali le produzioni, i mercati, le conoscenze, le tecnologie? Come fanno tanti piccoli staterelli a regolare i commerci, le transazioni finanziarie, le imposizioni fiscali, le speculazioni, con una miriade di accordi bilaterali o multilaterali ma sempre limitati e non globali? La risposta è molto semplice: non ce la fanno più e questo è un fattore che crea una straordinaria turbolenza ovunque nel mondo. Ma su questo torneremo nel prossimo paragrafo. Ma se dalle considerazioni amministrative, istituzionali ed economiche passiamo a quelle culturali, le cose non cambiano, anzi.
La generazione degli inter-rail, dell’Erasmus, di internet, che parla inglese e gira con carta di credito e cellulare è una generazione anch’essa globale. Se i giovani italiani sono poco europeisti è perché sono ultra-europeisti nel senso che considerano i confini europei troppo angusti e limitati per loro.
Prendiamo ad esempio quella che per molti aspetti è “oggettivamente” una straordinaria mistificazione: la “fuga dei cervelli”, intesa come grande indicatore del declino dell’Italia. Al netto della “vera” fuga dei veri “cervelli”, cioè di quelli che vanno all’estero per trovare quella qualità della ricerca e della carriera scientifica che da noi ormai è diventata financo impensabile, si tratta di un’affermazione che contiene tante falsità e imprecisioni.
Intanto andrebbe ricordato che fino a 20-30 anni fa i cervelli, intesi come coloro che vogliono specializzarsi nella ricerca scientifica, erano costretti ad andare all’estero per ottenere un P.h.D. banalmente per il fatto che in Italia non esistevano i dottorati di ricerca. E che qualcuno poi si fermasse all’estero è un fatto del tutto normale, fisiologico e non certo una fuga.
Chiamare fuga ogni spostamento dall’Italia ad un altro paese europeo, Inghilterra inclusa, vuol dire non aver ancora capito cos’è l’Europa che abbiamo già costruito.
La stragrande maggioranza dei giovani che vanno a lavorare all’estero non sono particolarmente scolarizzati, nel senso che non sono degli scienziati in formazione e, molto spesso, per inseguire i loro sogni e soddisfare le loro curiosità, lasciano un lavoro che già avevano.
Chi va a fare il barista o il cameriere in giro per il mondo potrebbe tranquillamente fare lo stesso lavoro in Italia.
Quindi nella maggior parte dei casi non è una fuga e non è una fuga di cervelli. E’ molto più semplicemente la capacità, la curiosità, la voglia di vivere nel mondo al di là dei confini nazionali, di quella “patria” che viene riconosciuta e sbandierata solo durante i mondiali di calcio, le olimpiadi e i gran premi in cui corre la Ferrari.
Per molti versi questi cervelli in fuga ricordano la vecchia canzone scritta dall’anarchico Pietro Gori nel 1898 (lo stesso di “Addio Lugano bella”) che recita: “La mia casa è il mondo intero, la mia fede èla libertà”. Le ragioni sono in parte diverse, ma il sogno è lo stesso: la libertà di girare tutto il mondo sentendosi sempre a casa propria.
Quella che potremmo definire come “l’inadeguatezza istituzionale delle nazioni” ad affrontare e a governare le sfide dei nostri tempi, è al contempo un fattore di turbolenza generale (politica, economica, culturale) ma anche una condizione di “impotenza strutturale” data la dimensione e la vastità dei problemi che dovrebbero essere affrontati.
Il ‘900, secolo delle guerre, delle (nostre) migrazioni, del fordismo e del consumismo, della lotta di classe e del welfare, delle ideologie totalizzanti ma confortanti, è finito e non tornerà più.
Il problema è che molti politici, molti osservatori, molti elettori hanno la testa ancora in quel secolo e per questo con le loro visioni “antiche” creano una grande turbolenza che (ancora) non si traduce in transizione, rivoluzione, cambio del paradigma e che comunque fatica a comprendere e interagire con coloro che, per ragioni anagrafiche, quel secolo non l’hanno vissuto.
1.2 La globalizzazione
Qualcuno potrebbe considerare stucchevole sentir parlare ancora di globalizzazione: ormai l’abbiamo capita!
Eppure ho l’impressione che molti abbiano una concezione piuttosto riduttiva di questo fenomeno che non è solo economico.
Prenderò come unico riferimento la Cina, pur essendo ben consapevole che dovrei parlare dei paesi del BRIC, così come anche di altri paesi del mondo.
Molti, in particolare artigiani, commercianti e piccoli imprenditori, ma anche semplici consumatori, ritengono che la globalizzazione si sostanzi e si limiti al fatto che sul nostro mercato vengono immessi prodotti a bassissimo costo perché realizzati in Cina dove la mano d’opera costa molto meno che da noi.
Purtroppo o per fortuna la “cosa” non si limita a questo.
Intanto molti di quei prodotti sono progettati e venduti da imprese italiane che realizzano all’estero, laddove la mano d’opera costa meno, la produzione materiale, ma per il resto giocano fortemente anche sul mercato locale.
Anche nel settore agro alimentare le cose non sono molto diverse. La Barilla, come ha dichiarato più volte pubblicamente, non sarebbe in grado di vendere nel mondo tutta la pasta che produce se non utilizzasse il grano di altri paesi, in particolare del Canada.
Non è un caso che quando si comincia a legiferare seriamente sul “Made in Italy” e del marchio che dovrebbe certificarlo, molte imprese si oppongono al fatto che nelle condizioni per ottenere quel marchio siano compresi le indicazioni relative al luogo di produzione o di provenienza.
Tanti prodotti che consideriamo cinesi sono in realtà in larga parte italiani e non è mai stato così vero che “la Cina è vicina” anche se per ragioni diverse da quelle che ipotizzava Marco Bellocchio nel suo celebre film.
Ma la Cina non è solo l’insieme di merci che invadono a bassi prezzi i nostri mercati. Questa è solo la parte emergente dell’iceberg.
La Cina “possiede” una parte consistente del debito pubblico di molti paesi occidentali tra cui, in larga misura, quello degli Stati Uniti.
Insiemi ai Paesi Arabi, all’India e ad altri ancora possiede quote azionarie significative in moltissime aziende considerate strategiche dai paesi che formalmente le possiedono.
In molti campi del sapere la Cina sta facendo investimenti in ricerca che, per il valore degli investimenti richiesti, non sono nemmeno immaginabili per i singoli paesi europei, e sta attraendo cervelli da tutto il mondo.
La Cina è arrivata al punto, insieme alla Russia e agli Stati Uniti, di comprarsi blasonate squadre di calcio europee, laddove il calcio da noi è considerato ancora quanto di più patriottico si possa immaginare. E potete star sicuri che se i cinesi si sono comprati un paio di squadre italiane non è perché il popolo cinese sia un tifoso sfegatato del calcio italiano, magari proprio di quello delle due squadre, o perché pensano di farci dei soldi, ma per altre ragioni più generali e “politiche”. Se il calcio è tanta parte della “cultura” italiana ed europea allora attraverso il calcio si possono superare barriere culturali che in altri modi sarebbero difficili da rimuovere.
I cinesi sono talmente presenti con pesi rilevanti in tutti i paesi dell’occidente che qualora decidessero di farci la guerra, non avrebbero bisogno delle armi atomiche. Basterebbe loro vendere di colpo gli assetoccidentali per produrre una crisi economica ben più grave di quella che abbiamo conosciuto di recente.
Questa è la globalizzazione.
Ma la globalizzazione è anche altro. Senza che quasi nessuno se ne accorgesse la Cina si è già “comprata” buona parte dell’Africa dove ha realizzato investimenti straordinari. E l’Africa con le sue enormi risorse naturali e una mano d’opera a prezzi stracciati è destinata ad essere il continente del futuro. Ci metterà un po’ di tempo, ma non più di tanto, perché non dovrà ripercorrere tutte le fasi dello sviluppo industriale che hanno caratterizzato tutti gli altri continenti. I capitali li mettono i cinesi, le tecnologie le mettono i cinesi, le competenze le mettono i cinesi, la formazione la fanno i cinesi e noi ci preoccupiamo se qualche migliaio di africani sbarca, oggi, sul nostro suolo patrio.
Ovviamente non esistono solo i cinesi che abbiamo assunto come esempio, anche se di grande rilievo. Tutti i paesi, compreso il nostro, investono in varie forme in altri paesi. La finanza è globale, la circolazione delle merci è globale, le imprese più significative e dinamiche del secolo sono globali, i mercati sono globali, la ricerca è globale, le tecnologie sono globali, la circolazione delle persone è globale, il turismo è globale.
Che la globalizzazione non sia, come avrebbe detto il presidente Mao, “Un pranzo di gala” è oggettivamente vero. Soprattutto nella fase iniziali alcuni più di altri dovranno pagare costi elevati, mentre altri godranno di benefici che prima non avevano mai conosciuto.
Che nella globalizzazione la vecchia e cara Europa perda parte del suo peso storico non è una previsione ma una constatazione.
Che il processo di globalizzazione sia ormai irreversibile è un’altra constatazione di fatto. Anche volendo non si torna indietro.
Che una minuscola nazione come l’Italia o un piccolo continente come l’Europa possano pensare di combatterla e/o di tornare indietro è una pia illusione.
O giochi e cerchi di sfruttare i tuoi potenziali e i tuoi punti di eccellenza, che non sono pochi, oppure hai perso in partenza. Per quanto amore patrio si possa avere, 60 milioni di abitanti sui 7/9 miliardi di abitanti del mondo dei prossimi anni sono davvero pochi per poter incidere su questi processi.
Pensare che la soluzione sia una sorta di nuova autarchia politica, economica e sociale è assolutamente miope e perdente.
Allora mi pare evidente che l’unica possibilità di sopravvivere e crescere in questo contesto sia quella di capire cosa è già successo e quali risorse abbiamo per arginare nel breve gli effetti per noi più negativi e, nel medio, per continuare a svolgere un ruolo rilevante e più che dignitoso.
Non mi pare però che il dibattito politico si muova minimamente in questa direzione.
Ancora una volta di fronte ad una grande turbolenza come quella creata dalla globalizzazione pensiamo alle soluzioni, alle ricette immediate, prima ancora di aver capito di fronte a cosa ci troviamo.
1.3 La tecnologia
La riflessione sull’impatto delle innovazioni tecnologiche su quelle che abbiamo chiamato le turbolenze di questo secolo, è molto più semplice per diverse ragioni.
La prima è che la tecnologia pervade ormai da anni la vita quotidiana di tutti. Mentre pochi, ormai, hanno esperienza o memoria del ‘900 e pochi hanno una piena consapevolezza di cosa sia veramente la globalizzazione, quasi tutti sanno cos’è la tecnologia perché la usano tutti i giorni. Chiunque possieda un PC o uno smart phone, naviga in rete, scrive, si informa e fa direttamente e in prima persona “cose” che prima erano intermediate da una qualche organizzazione/struttura fisica: prenotazioni, operazioni bancarie, pagamenti, iscrizioni, ricerca di un partner, ecc.
Chiunque, ma davvero chiunque, attraverso la rete e i social,può comunicare non solo con chiunque altro ma con tutti contemporaneamente e in tempo reale, a costo sostanzialmente pari a zero.
E per fare tutto questo non bisogna avere competenze specialistiche che richiedono lunghi processi di apprendimento. E’ un po’ come l’inglese: pochi lo sanno bene ma ormai tutti se la cavano e riescono a sopravvivere ovunque.
La seconda ragione è che su questo tema sono già stati scritti fiumi di inchiostro che hanno preso in considerazione gli aspetti sociali, psicologici, linguistici, culturali, economici e così via che le nuove tecnologie, che dovremo smettere di chiamare nuove, hanno indotto in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Sintetizzando un dibattito tanto interessante quanto sterminato, senza prendere in considerazione gli aspetti più strettamente tecnici (fino ad arrivare a parlare di intelligenza artificiale) mi pare che le dimensioni fondamentali siano sostanzialmente tre:
– il superamento dei vincoli spazio-temporali che hanno condizionato l’umanità fino a pochi, davvero pochi, decenni orsono;
– il superamento di una infinità di processi di intermediazione con l’accesso diretto a informazioni, conoscenze, operazioni;
– una straordinaria accelerazione della sostituzione dell’uomo con le “macchine” (termine per altro “tipico”, se non addirittura “topico”, del ‘900)
Da un lato tutto questo ha prodotto uno straordinario progresso della scienza e della conoscenza in tutti i campi ma dall’altro lato ha prodotto, cosa più rilevante per la politica, quella che alcuni chiamano, in negativo, “la socializzazione dell’ignoranza” di cui i social come Facebook e Twittersono fulgida testimonianza. Una sorta di paradosso su cui pochi riflettono sottolineando sempre e comunque gli aspetti positivi ma che è la base “tecnologica” sulla quale si fonda il venir meno del rispetto della competenza, su cui torneremo tra breve.
La terza ragione è che nel caso della tecnologia è assolutamente sensato parlare già oggi di rivoluzione e di nuovo paradigma. Non siamo più in transizione; siamo già in un mondo radicalmente nuovo e diverso in cui la più parte delle coordinate di riferimento sono chiare.
Perché allora insistere con la tecnologia come componente che alimenta la turbolenza?
Anche in questo caso ci sono diverse ragioni “politiche” che conviene richiamare succintamente.
Intanto esiste ancora uno straordinario divario tra potenzialità già acquisite dalle tecnologie e applicazioni concrete. Sono assolutamente consapevole di utilizzare non più del 5-10% di quello che saprebbe o potrebbe fare il mio computer. Imprese e amministrazioni pubbliche sono nelle stesse condizioni. Ma anche gli Stati si differenziano sulla base del grado di informatizzazione generale (vedi la disponibilità e diffusione delle connessioni, la banda larga, ecc.) Quello che in termini sintetici potremmo chiamare il digital divideoggi rappresenta il principale terreno di competizione non solo tra imprese, ma tra sistemi territoriali, paesi e continenti. E questo è il terreno per elezione della politica.
Un altro aspetto di straordinaria e evidente rilevanza politica è che nessuno ha davvero capito se ci troviamo di fronte ad una ciclica e ricorrente rivoluzione industriale che, nel mentre distrugge posti di lavoro, crea le condizioni per la nascita di nuove imprese e quindi di nuova occupazione, nel qual caso la disoccupazione è un elemento frizionale, oppure questa volta la distruzione di posti di lavoro è strutturale, definitiva e non contingente e frizionale. Il luddismo era facilmente attaccabile e condannabile perché sostanzialmente miope e reazionario. Non so quanti siano in grado di sostenere la stessa cosa nei confronti di quello che per comodità potremmo chiamare il neo luddismo. Sono anni ormai che si parla di fine del lavoro, di “lavorare meno lavorare tutti”, di sistematica sovrapproduzione di merci che, per non intaccare le logiche di mercato, vengono sistematicamente distrutte, ecc.
Qui siamo davvero nel cuore della turbolenza politica perché alle reazioni neo-luddiste si contrappone un ottimismo salvifico più ideologico che empiricamente dimostrato. Comunque un processo ineluttabile che in qualche modo deve, o dovrebbe, essere governato (anche) dalla politica.
Un altro aspetto squisitamente politico è la trasformazione dei rapporti di forza, della allocazione del potere reale (altro che poteri forti). Molti, in particolare sindacato e certa sinistra, considerano ancora oggi l’industria automobilistica come l’impresa capitalista per eccellenza, e la fabbrica come il luogo “sacro” del confronto tra capitale e lavoro. Ma le cose non stanno più così. I veri colossi economici sono le imprese globali come Google, Facebook, Amazon, ecc., cioè quelle imprese che sono nate con e sulle nuove tecnologie e che realizzano profitti e volumi d’affari che sono su un altro pianeta rispetto a qualsiasi impresa automobilistica.
Questo non solo crea sconvolgimenti (turbolenze) nei tradizionali rapporti di forza tra Paese e Paese ma crea anche difficoltà per le tradizionali nazioni chiamate a governare dinamiche a-nazionali più che internazionali o multinazionali e cioè, ancora una volta, globali.
Tutto questo si riflette anche a livello locale sulla tradizionale “gerarchia” delle industrie nel confronto politico e sindacale. I magazzini di Amazon sono più “centrali” degli stabilimenti Fiat, l’occupazione viene molto più dai servizi che dalla manifattura, le professionalità si divaricano radicalmente tra quelle nuove ad alta potenzialità e quelle puramente esecutive a basso contenuto di conoscenza. Tutto questo chiama in ballo prospettive occupazionali, dinamiche di sviluppo, strutture contrattuali, identificazione delle controparti (locali o globali) e cioè il cuore della politica di tutti i giorni.
Ma la vera turbolenza tanto cognitiva che politica si risolve nella domanda: dove ci porterà tutto questo nel breve medio termine? Non dimentichiamoci che l’I-phone, strumento di straordinaria potenza e al contempo di straordinaria diffusione sociale, ha compiuto quest’anno “solo” 10 anni dalla sua prima timida e incompleta apparizione. Tutti sanno e affermano che i tempi di trasferimento delle innovazioni tecnologiche al mercato, alla diffusione “ultrademocratica” delle stesse sono sempre più brevi. E quindi cosa succederà nei prossimi anni e nei prossimi, pochi, decenni?
Non sono un futurologo e non ho le competenze necessarie per avventurarmi in previsioni di questa natura. Ma se le strategie, anche quelle politiche, sono proiezioni nel futuro, una qualche risposta bisognerà darla a questa domanda.
Chiudo segnalando al lettore un libro, che non posso e non voglio riassumere in poche righe, che affronta esplicitamente e puntualmente questo tema e che ho trovato di straordinario interesse, non tanto per le soluzioni che prevede, quanto per le riflessioni che costringe a fare e per le dimensioni e gli aspetti che induce a prendere in considerazione. Mi riferisco all’ultimo libro di Jeremy Rifkin, “La società a costo marginale zero” dove tecnologie informatiche e digitali (l’internet delle cose), energia rinnovabile e distribuita, dinamiche economiche globali, si intrecciano e danno vita a nuovi assetti di potere che, secondo l’autore, porteranno a breve al superamento di quel capitalismo in cui oggi viviamo e che tanta parte ha avuto e ha ancora nel condizionare le nostre convinzioni politiche.
Complimenti, una riflessione molto interessante di cui la ringrazio.
Unico neo la citazione finale di rifkin, che considero poco piu’ di un ciarlatano: ma sono opinioni.
Continuero’ a leggere i suoi post con grande piacere.