Tappa n. 4: Il movimento 5 Stelle

La particolare attenzione dedicata al movimento 5 Stelle in questo secondo viaggio (primo partito ad essere preso in considerazione e numero di pagine dedicate) è dovuta a tre ragioni ben precise:

1)    rappresenta la più grande novità del sistema politico italiano confermata dal 32% di voti ottenuti nelle elezioni politiche del 2018;

2)    ci consente di mettere subito alla prova le potenzialità euristiche del nostro quadro interpretativo;

3)    ci permette di affrontare di petto una questione fondamentale quando si parla di politica: l’assoluta rilevanza della collocazione politica di chi parla, a prescindere da quello che dice.

 

Il punto uno è auto evidente.

Sul punto due ci confronteremo lungo tutto il capitolo.

 

Il terzo punto merita un’attenzione particolare perché richiama un fenomeno assolutamente normale quando chiunque di noi si trova ad ascoltare chiunque altro “parli” di politica: uno sconosciuto al bar o in treno; un opinionista in televisione; persino un politico di professione non conosciuto dall’opinione pubblica. La prima domanda che ci poniamo è: “Ma questo che parla è dei nostri o è un nemico?”. “E’ un compagno o un fascista?” (magari è un moderatissimo esponente di Forza Italia). Non importa l’argomento e/o l’argomentazione, importa la collocazione politica. Se è un compagno non può dire sciocchezze; al massimo è un compagno che sbaglia. Se non è un compagno è impossibile che dica cose intelligenti, ragionevoli, documentate; magari può sembrare a prima vista una brava persona ma sotto sotto è un nemico. Ovviamente vale anche il contrario.

 

Questo è un “fenomeno” assolutamente normale che non riguarda solo la politica ma la vita di tutti i giorni ed ha a che fare con le mappe cognitive, con la socializzazione culturale, con l’appartenenza a gruppi particolari, con i processi di apprendimento e di attivazione, ecc. tutte cose estremamente interessanti studiate dalla psicologia cognitiva, dalla antropologia culturale, dal marketing avanzato, fino ad arrivare all’intelligenza artificiale. Ovviamente non abbiamo tempo e modo in questa sede di approfondire un tema vasto che ho sempre trovato straordinariamente interessante e che complessivamente è stato poco utilizzato per analizzare il discorso politico.

 

Torniamo a noi. La prima domanda che tutti si sono posti con l’emergere impetuoso del Movimento di Grillo è questa, banale banale, ma scagli la prima pietra chi non se l’è posta almeno una volta proprio in questi termini: “Ma i 5 Stelle sono di destra o di sinistra?”.

Il problema è che non lo sanno neanche loro; infatti affermano da sempre: “Siamo un movimento e non un partito, post ideologico né di destra né di sinistra”.

Il punto però è che la convinzione che siano di sinistra o di destra, fondata o meno che sia, ha spostato molti voti in tutte le ultime tornate elettorali.

 

Prendere di petto la questione della collocazione dei 5 Stelle sull’asse destra-sinistra dunque non è un vezzo o un’ossessione del sottoscritto, che sul tema si è già espresso più volte sempre su questo blog, ma una condizione fondamentale per capire un andamento dei flussi elettorali che, nella sua portata e nella sua novità, ha sorpreso un po’ tutti, in primisgli specialisti della materia.

 

Guardando il quadro dei 5 Stelle partiamo dalla cosa più difficile da cogliere a prima vista e cioè dalla domanda: “Cosa indica lo straordinario successo di questo partito/movimento che in una decina di anni è passato da zero a trenta in termini di peso elettorale?”

Meglio ancora: “Perché molti italiani (elettori, osservatori, intellettuali ma anche studiosi) considerano i 5 Stelle di sinistra, tanto che alcuni parlano esplicitamente di “nuova sinistra”?

Quale segnale, certamente debole, si nasconde dietro l’idea, da molti condivisa, che i 5 Stelle siano di sinistra e, addirittura, rappresentino oggi la nuova sinistra?

Parlo di segnale certamente debole perché alla base di questa affermazione troviamo aspetti paradossali, errori veri e propri, ingenuità, contraddizioni, nostalgie cognitive.

 

Partiamo dal paradosso. Da sempre i grillini si definiscono post ideologici, né di destra né di sinistra.

Sul post ideologico mi sono già dilungato in precedenza. Ma perché, e qui sta il paradosso, in molti li hanno votati partendo dall’idea che, sotto sotto, invece fossero di sinistra, ragione principale e sufficiente perché molti osservatori li definiscono tali?

 

Altro aspetto contraddittorio, se non paradossale, è che ormai praticamente tutti sostengono che la dicotomia destra/sinistra è superata, come abbiamo dettagliatamente spiegato nel secondo capitolo. Eppure viene ancora largamente usata tanto dagli elettori, come principio di identificazione, quanto dagli osservatori, come etichetta di sintesi che evoca tante dimensioni latenti. E’ vero, come diceva Rokkan, che le (vecchie) fratture si “congelano” e in qualche modo persistono nel tempo, nella memoria, nei miti, nel linguaggio anche quando non “descrivono” più accuratamente i fenomeni che volevano interpretare. Resta il fatto però che non è semplice capire perché, ancora oggi, sia così importante essere, sentirsi, e, soprattutto, essere considerati di sinistra. La “destra” non ha di questi problemi. Nessuno se la prende più di tanto se gli altri li riconoscono come destra o li accusano di essere di destra. Invece il termine sinistra viene ancora comunemente utilizzato come insulto o come complimento, come ragione di vergogna o di orgoglio. In questa “nostalgia semantica” ci deve essere sotto qualcosa che ancora non riusciamo bene a capire.

La questione resta abbastanza “misteriosa” ma, forse, se ci chiediamo perché i 5 Stelle sarebbero o dovrebbero essere di sinistra, capiremo qualcosa di più.

 

La spiegazione più diffusa che autorizza a dire che i 5 Stelle sono di sinistra risiede nella semplice constatazione che sono stati votati in massa da elettori che in precedenza avevano votato a sinistra.

Doppio errore. Intanto dire che un partito è di sinistra (oppure di destra, la cosa non cambia) perché sociologicamente rappresenta il popolo che lo vota configura quello che tanti anni fa Angelo Panebianco definì il “pregiudizio sociologico”. La Lega ormai da anni intercetta il voto degli operai, come sanno benissimo i sindacati e come confermano tutti i sondaggi, ma nessuno la definisce un partito di sinistra. Per i 5 Stelle votano comunque, probabilmente in maggioranza, elettori che non sono e non si sentono di sinistra. Non è un’accusa, nemmeno implicita, ricordare che anche fascismo e nazismo alle origini hanno raccolto il voto del popolo e che Mussolini nasce come socialista e il partito di Hitler si chiamava Nazional-socialista. La spiegazione sociologica, il pregiudizio sociologico, non tiene e non ha mai spiegato nulla di nessun partito.

 

Secondo errore: i risultati delle elezioni del 4 marzo 2018 dicono con chiarezza che i voti fuoriusciti dalla sinistra, PD e Liberi e Uguali, sono andati ai 5 Stelle al sud e alla Lega al nord. Bisognerebbe ricordare che nelle stesse elezioni in Emilia Romagna i 5 Stelle sono passati dal 25 al 27% mentre la Lega, senza che nessuno ne avesse avuto il minimo sentore, è passata dal 2,4 al 19,2 (non è un errore di battitura, una svista, è andata proprio così). Ergo dovremmo riconoscere che la protesta che si traduce in abbandono del voto a sinistra è andata sia ai 5 Stelle che alla Lega, notoriamente e orgogliosamente di destra.

 

Per non incorrere nei veri e propri errori indotti dal pregiudizio sociologico guardiamo allora agli uomini, ai dirigenti, ai leader, agli eletti.

 

Non mi risulta che Grillo venga da una militanza politica di sinistra; padre e figlio Casaleggio neppure; Di Maio nemmeno; Di Battista è figlio di uno che rivendica apertamente di essere fascista. L’unico in “odore” di sinistra è Fico, il che, oggettivamente, mi sembra un po’ poco per etichettare un intero movimento/partito.

 

L’equivoco, che di equivoco secondo me si tratta, nasce e viene rafforzato da una vecchia foto apparsa su tutti i giornali che ritrae il caloroso abbraccio tra Grillo e Dario Fo entrambi imbaccuccati in pesanti pastrani e con il colbacco in testa, per il grande freddo che faceva quel giorno.

Da quella foto scatta il classico sillogismo. Se Dario Fo, che è indubbiamente di sinistra, abbraccia con tanto calore Grillo, vuol dire che anche Grillo è di sinistra e, di conseguenza, anche il movimento 5 Stelle è di sinistra. Come tutti i sillogismi non fa una grinza.

 

Però quell’ “indubbiamente” che regge tutto il sillogismo in realtà, almeno a me, fa venire invece un sacco di dubbi perché, immagino che a questo punto molti si sorprenderanno o si scandalizzeranno, non ho mai considerato Dario Fo di sinistra. Un attimo di pazienza e provo a spiegare perché sono arrivato a questa convinzione proprio seguendo con attenzione le tante, ricche e colte opere teatrali del nostro premio Nobel. Detto ancora più spudoratamente: è stato proprio Dario Fo a spiegarmi che lui non è mai stato di sinistra, tanto da abbracciare, anche fisicamente, e ormai quasi al termine della sua “fantastica” vita Beppe Grillo. Nella sua vasta e profonda cultura, quella che gli è valsa appunto il premio Nobel per la letteratura, Fo ci ha sempre raccontato l’origine e la funzione del giullare, termine che molto volentieri lui attribuiva a sé stesso. Il giullare, fin dall’antichità, non è mai stato di destra o di sinistra. Il giullare, per definizione professionale, era contro il potere, contro qualsiasi potere. Per evitare di essere giustiziato utilizzava l’arma dell’ironia, del sarcasmo anche pesante, stando molto attento però a non esagerare, a essere frainteso, per non incorrere in sanzioni che, all’epoca, tendevano ad essere definitive, senza possibilità fisica di appello. Al popolo, ai miseri, ai derelitti, che non potevano o non sapevano opporsi in altri modi al sovrano, in assenza di democrazia tiranno per definizione, tutto questo piaceva moltissimo perché si lanciavano frecciate, anche pesanti, al potente di turno, per di più ridendo. Per quei secoli bui non era poi così male e, comunque, era l’unica possibilità a disposizione.

 

Il giullare aveva la precisa funzione di fare ridere, mostrandosi con garbo ed entro certi limiti, “contro” il sovrano, il padrone, chiunque esso fosse. La grandezza di Dario Fo è stata quella di portare sulle scene, per anni, diverse tipologie di giullari, sempre e comunque contro, con tanta passione e entusiasmo e compenetrazione nella parte da diventare lui stesso un giullare, cosa di cui per altro menava vanto.

 

Ma si può dire che un giullare sia di destra o di sinistra? Evidentemente no, per la semplice ragione che se il bersaglio del giullare è di destra lui sembrerà di sinistra, viceversa se il bersaglio è di sinistra lui sembrerà di destra perché il suo mestiere, la sua ragione di vita, è essere contro il potere.

Beppe Grillo è allievo di Fo e dallo stesso ha imparato, direttamente e/o indirettamente il mestiere del comico, traduzione moderna del termine giullare.

 

Come sempre, al popolo, ridere dei potenti è sempre piaciuto perché spesso era ed è l’unica forma flebile, anche se a volte rumorosa, di protesta generalizzata senza nemmeno l’obbligo di dover organizzare una vera e propria opposizione politica. Tutto questo, ripeto, me lo ha fatto capire proprio Dario Fo. Da qui a dire che Fo era di sinistra e che anche Grillo, non a caso abbracciato dal Grande Giullare, è di sinistra, il passo per molti è breve, ma non per me.

 

Seguendo lo stesso ragionamento (absit iniuria verbise si parva licet, davvero molto parva) Travaglio e i suoi dovrebbero essere di sinistra, il che è talmente improbabile, che lo stesso Travaglio, cosa che è sfuggita ai più, non si è mai azzardato a sostenere perché anche per lui, c’è un limite all’indecenza. Buona parte dei suoi lettori comprano il Fatto Quotidiano nella convinzione che sia un giornale di sinistra, anzi ormai, l’unico di sinistra, cadendo in un equivoco tanto politico che semantico, in quanto considerano ogni forma di protesta del popolo “ontologicamente” di sinistra il che è un errore grossolano anche se molto diffuso.

 

Travaglio, come Grillo, Fo e tutti i giullari di tutti i tempi, sono semplicemente contro, contro tutto ciò che lontanamente sa di potere. Riprendendo una frase efficacissima inventata anni fa da un mio collega per esprimere in grande sintesi le caratteristiche salienti di un altro collega: “Travaglio è in disaccordo con te anche quando tu sei d’accordo con lui”. Non è chiaro se si tratti di caratteristica genetica della personalità, di fatalità, di ricerca consapevole di una forma particolare di comunicazione. L’essere sempre e comunque contro, attraverso la satira o la stampa, è al contempo un ruolo e una, anche importante, funzione sociale. Che sia di sinistra è ancora tutto da dimostrare perché anche la dabbenaggine e l’ignoranza della storia dovrebbero avere un limite.

 

Se passiamo dal teatro dei giullari alla realtà politica degli ultimi decenni, la questione si presenta, a mio avviso, in questi termini.

 

Nella storia dell’Occidente si sono sempre confrontate e spesso scontrate due concezioni profonde della sinistra, di cosa voglia dire essere e agire come persona di sinistra. Potremmo chiamare la prima “sinistra scientifica”, quella che, in estrema sintesi, sostiene che classe e movimento operaio sono i veri motori del progresso, dell’emancipazione dell’uomo, che può o deve passare, anche attraverso la rivoluzione proletaria. A questa sinistra che, in Italia, annovera nomi come Togliatti ma anche Amendola e Napolitano (molto meno Ingrao e Berlinguer) e che ha sempre nutrito forti dubbi e sospetti nei confronti del Lumpen Proletariat, cioè dei più miseri e miserabili che, per definizione, non vengono nemmeno sfruttati dal padrone e quindi, non avendo potuto maturare una coscienza di classe, sono spesso preda dei demagoghi di tutte le destre, si contrappone una sinistra che potremmo definire “sentimentale”. Tutti i principali movimenti politici nati intorno al mitico ’68 rientrano nella categoria della “sinistra sentimentale” perché il loro riferimento non è più solo e tanto la classe operaia, ma tutte quelle persone che per una qualsiasi ragione vivono in condizioni di profondo disagio sociale, economico, razziale e umano. Il movimento più emblematico è stato, ai suoi tempi, Lotta Continua ma anche, non da meno, la sinistra cislina di Carniti. In questa seconda sinistra l’elemento saliente, se ci pensate, è che il ruolo più rilevante lo hanno giocato i cattolici o comunque persone che venivano da un’educazione e da una tradizione cattolica.

 

E’ possibile che questa semplice distinzione tra sinistra scientifica e sinistra sentimentale possa spiegare molte più cose di quanto non appaia a prima vista.

Il declino, in tutto il mondo, dei partiti “scientifici”, quelli di ispirazione più o meno leninista per intenderci, secondo questa ipotesi sarebbe dovuto al superamento tanto strutturale che sovrastrutturale, Marx e Weber aiutano, delle condizioni di vita delle “plebi”. In fondo è quello di cui ci siamo occupati nella prima parte del libro.

 

L’affermarsi di una “sinistra sentimentale” parte dall’allargamento del popolo di riferimento (sottoproletariato, terzo mondo, paesi non allineati, paesi emergenti, ma anche donne, omosessuali, disagiati in generale) fino ad arrivare all’abbandono di una qualsiasi prospettiva scientifica. In questo senso capisco perché i 5 Stelle sono considerati di sinistra e perché proposte come Reddito di Cittadinanza, abolizione della legge Fornero, lotta senza quartiere a tutte le caste e a tutti i privilegi, vengano considerati da molti programmi di sinistra che, in quanto tali, meritano di essere sostenuti dal voto.

 

Capisco ma non condivido o, meglio capisco che gli elettori possano cadere in quello che io continuo a considerare sostanzialmente un equivoco; capisco meno l’atteggiamento, a mio avviso eccessivamente semplicistico e riduttivo, di tutti coloro che avendo “studiato la politica” ne parlano continuamente (professori, giornalisti, osservatori, intellettuali) veicolando l’idea che il termine sinistra equivalga a protesta e che quindi i 5 Stelle siano di sinistra. Per di più utilizzando un termine obsoleto che i grillini stessi non hanno mai usato ma che, al di là di tutto, viene ancora adoperato quotidianamente per indicare qualcosa di vago ma che si capisce al volo. Anche questo fa parte della politica però in politica non ho mai creduto alla auto-certificazione: non è che tu (persona, movimento, partito, sindacato ma anche giornalista, opinionista, intellettuale) puoi autocertificare di essere di destra o di sinistra. L’appartenenza all’uno o all’altro schieramento dipende dalla storia, dall’esperienza, dai valori, dalla collocazione internazionale, dai programmi di governo e non da un vago sentimento personale.

 

Se prendiamo in considerazione una delle fratture “moderne” che abbiamo analizzato nel secondo capitolo chiunque può autodefinirsi “naturalista” così come qualsiasi osservatore può catalogarlo come “naturalista”. Ma se nel contempo sei a favore di divorzio e aborto, fecondazione artificiale, coppie di fatto e bio-testamento, grandi opere, sviluppo economico e scientifico sempre e comunque, ecc.  allora puoi dire quello che vuoi ma “oggettivamente” non sei un “naturalista”.

 

Per carità non c’è nulla di male a sentirsi dell’una o dell’altra parte però se vogliamo parlare davvero di politica, così facendo rischiamo di cadere in quel dubbio esistenziale che la cinematografia americana ci ha raccontato migliaia di volte: sono più buoni gli indiani o i cow boy; hanno ragione gli indiani o i cow boy; sono più di sinistra (scientifica si intende) gli indiani o i cow boy; sono più simpatici gli indiani o i cow boy, dilemma che nessuno, a parte i soliti talebani, è mai riuscito a risolvere. Il cinema non è politica, si potrebbe dire, anche se molti registi si offenderebbero, però non dimentichiamo che per innata ed evidente antipatia personale non pochi leader hanno perso non pochi voti. Senza fare nomi.

 

Non era facile immaginare che un rapido sguardo al quadro dei 5 Stelle ci avrebbe portato così lontano. Torniamo però adesso ai nostri parametri di riferimento più classici, a quel modello interpretativo che abbiamo illustrato nella premessa della seconda parte di questo libro.

 

Il “problema specifico” dei 5 Stelle …. sono due, fortunatamente tra loro strettamente correlati, due facce della stessa medaglia.

Il primo è quello che con Weber si chiama “routinizzazione del carisma” e che caratterizza tutte quelle organizzazioni che guidate da un leader carismatico hanno successo, crescono rapidamente e si diffondono sul territorio. Il problema nasce dai limiti fisici del leader: anche volendo non può essere presente sempre e ovunque. Allora per sostenere e spingere ulteriormente la crescita dell’organizzazione bisogna creare una qualche struttura, quello che Weber chiamava un “apparato amministrativo”. All’origine l’apparato è molto semplice e ridotto: qualche amico, qualche fedele, qualche apostolo, insomma, come diremmo oggi l’inner circleo il cerchio magico che lo stesso leader ha voluto intorno a sé: tutti sempre e comunque cooptati e non eletti. Ma mano a mano che il successo cresce deve crescere anche l’apparato amministrativo che lo sostiene. Di qui il problema della routinizzazione del carisma che si sostanzia nella domanda: come faccio a trasmettere il carisma del leader giù giù per tutti li rami dell’organizzazione senza perdere il valore e le qualità del leader stesso? Gli strumenti sono molteplici: devo rendere sempre più semplice e chiaro il verbo del capo, magari attraverso libretti di vario colore (rosso, verde); devo circondarmi di persone non solo fedeli ma anche competenti, perché prima o poi oltre a protestare dovrò anche spiegare cosa voglio fare concretamente; devo “assumere” un numero sempre crescente di seguaci disposti a lavorare a tempo pieno, ma anche i seguaci più fedeli tengono famiglia e, per quanto poco, vorrebbero continuare a mangiare e quindi un qualche posto in consiglio comunale, o in regione, o in parlamento, casta o non casta, potrebbe tornare utile. In altri termini devo riuscire a far passare la mia semplicissima e improvvisata organizzazione “da Movimento a Istituzione”, titolo tra l’altro di un bel libro di Francesco Alberoni la cui lettura consiglio vivamente a tutti i grillini.

 

Però perché la routinizzazione del carisma dovrebbe essere un problema “specifico” dei 5 Stelle posto che prima o poi riguarda tutte le organizzazioni e i movimenti di successo? In realtà almeno in questa fase è un problema rilevante per una molteplicità di ragioni. Grillo, certamente leader carismatico, gioca fuori campo alternando momenti di forte presenza a momenti di distacco e allontanamento. Casaleggio junior avrà sicuramente molte doti ma non è carismatico. Lo stesso dicasi per Di Maio, Di Battista e Fico e, all’orizzonte non si vede nessuno che possa sostituire efficacemente Grillo. Fino ad ora i professionisti, i professori, in una parola i competenti, si sono tenuti alla larga del Movimento, come dimostrano le difficoltà incontrate nella formazione del governo capitolino e di quello nazionale, entrambi casi in cui sono state letteralmente corteggiate figure fino a quel momento esterne ed estranee al movimento, per ovviare al deficit di competenze interne. Anche l’organizzazione “virtuale” concentrata esclusivamente sulla rete comincia a mostrare alcuni limiti. A tutto questo i dirigenti 5 Stelle dovranno necessariamente prestare un’attenzione particolare per mantenere un giusto equilibrio tra strategia e struttura, tra politica e organizzazione.

 

Il passaggio da movimento a istituzione si colloca sullo stesso crinale: puoi mantenere una struttura e una “filosofia” leggera nella prima fase ma con il tempo sei costretto a consolidare il tuo apparato e la tua organizzazione, se vuoi sopravvivere. La parola “istituzionalizzazione” ha diversi significati che non possiamo qui richiamare. Per essere però sufficientemente chiari e puntuali possiamo dire che probabilmente non si può andare avanti a lungo senza un vero statuto; senza organi intermedi (congresso, assemblea, direzione, segreteria) liberamente eletti e composti dagli iscritti; senza persone competenti che animano dall’interno la vita del partito; senza meccanismi veri di trasparenza dei processi decisionali e di legittimazione democratica degli organismi dirigenti; senza una struttura organizzativa meno fragile di quella della rete e delle varie piattaforme.

 

Tutti sono capaci di protestare ma quando, grazie al successo che hai avuto, ti accingi a governare molte cose cambiano, piaccia o non piaccia.

 

Giunti a questo punto ci manca un ultimo passaggio: I 5 Stelle sono “Neo conservatori o post riformisti?”. Avrei quasi voglia di lasciare questa domanda a ciascun lettore ma dal momento che, da vecchio professore, temo sempre il predominio del sentimento sulla ragione, della intuizione sul metodo, chiudo con brevissime e sintetiche considerazioni metodologicamente corrette per rispondere alla domanda.

Riprendendo le variabili, le polarizzazioni, le fratture analizzate nel secondo capitolo, mi sento di dire (ma chiunque potrebbe avere opinioni diverse dalle mie) che:

–       sono certamente populisti;

–       sono sostanzialmente sovranisti anche se a volte ondivaghi;

–       hanno grossi problemi “ideologici” (uno vale uno) con la competenza;

–       tendono ad essere naturalisti ma non sempre;

–       sono certamente sbrigativi e non riflessivi.

Con la benedizione di Weber dovremmo quindi concludere che sono dei neo conservatori reattivi.

 

Eppure. Eppure qualcosa non torna. Perché se analiticamente è difficile non riconoscere che sono dei conservatori, cioè di destra, a pelle continuano a sembrare di sinistra?

 

Per una ragione molto semplice: per la prima volta nella storia dell’Occidente un partito certamente conservatore ha come suo zoccolo duro non i ricchi e i benestanti, che vogliono naturalmente “conservare” i loro privilegi, ma i poveri, gli sfigati, i drop out, i disoccupati, quelli con le pensioni bassissime, quelli che non arrivano a fine mese. In altre parole i poveri sono la forza motrice dei nuovi partiti conservatori nel mondo o almeno in Italia.

Ai buonisti, cattocomunisti, generosi che compongono la (presunta) sinistra (certamente) sentimentale non par vero di schierarsi a fianco degli ultimi, “che poi saranno i primi”. E pur di collocarsi in questo grembo buonista ignorano le assurdità delle proposte di politica economica e l’ignoranza cristallina e genuina che caratterizza tutti i dirigenti e i quadri del Movimento.

Ancora una volta la sinistra sentimentale preferisce regalare pesci piuttosto che canne da pesca con relative istruzioni per l’uso. E pensa di essere davvero di sinistra. E’ vero che chi si accontenta gode, ma un eccesso di piacere obnubila la mente.

Diceva il mio professore di italiano e latino, il mitico Lucchesi del liceo Leonardo da Vinci della Milano del 1965: “Signori, nella gioia e nel dolore contegno”. Appunto.

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