La prima caratteristica che salta agli occhi applicando i nostri soliti parametri al quadro che ci presenta il PD è il forte contrasto tanto dei colori che dell’intensità dei tratti del pennello. Alcune parti del quadro sono chiare, luminose, con contorni ben precisi; a queste si contrappongono parti buie, quasi cupe, con tratti confusi, difficili da leggere e da interpretare.
Ad esempio, per quanto riguarda le polarizzazioni, è evidente che il PD rappresenta la quintessenza del polo dei post riformisti.
Anche il segnale che manda è molto chiaro. Il PD è l’indicatore di un disagio che caratterizza tutta la sinistra “classica”, europea e non solo, che può essere sintetizzato in quello che negli studi organizzativi si chiama il “paradosso del successo”. Con questa figura retorica si fa riferimento a tutte quelle organizzazioni che entrano in crisi perché continuano a leggere il mercato, l’ambiente in cui operano, con gli stessi occhiali e con le stesse lenti con le quali avevano raggiunto il successo.
I casi sono infiniti e vanno dall’esercito francese della Linea Maginot alle aziende che producevano regoli calcolatori; dalla produzione degli orologi a quella degli accendini. La storia è sempre quella: molte organizzazioni perdono proprio perché hanno vinto. Chi non ha ancora vinto è sempre alla ricerca di modi nuovi di operare per avere successo; chi invece ha avuto successo è convinto che continuare ad operare come si è sempre fatto garantisca la continuità del successo. L’affermazione di uso comune che dice “squadra che vince non si cambia” è profondamente sbagliata. E in questo sta il paradosso che altre discipline chiamerebbero un problema di dissonanza cognitiva.
Il PD, come tutti i partiti europei che affondano le loro radici più profonde nella sinistra del ‘900 ha avuto uno straordinario successo. Grazie alle lotte, all’organizzazione della classe operaia, a un obbiettivo molto chiaro (Il sol dell’avvenire) la sinistra nella sua ricca articolazione (partito, sindacato, cooperative, ma anche intellettuali e artisti) ha ottenuto i contratti di lavoro, salari dignitosi, le pensioni, la scolarizzazione di massa, l’assistenza sanitaria, il welfare, ecc.
Sostanzialmente ha vinto, ha avuto successo ed è andata al governo. Da qui nascono i problemi. Non tanto per un tradimento della classe operaia o perché anche in questo caso si afferma “la legge ferrea dell’oligarchia” di Michels ma, soprattutto, perché ha continuato a interpretare il mondo con gli stessi parametri e la stessa sicurezza che l’avevano portata al successo, ignorando che a fronte di trasformazioni davvero epocali (globalizzazione e rivoluzione digitale) quelli stessi parametri impediscono di capire cosa sta succedendo e, di conseguenza, cambiare, adattare, rinfrescare l’ideologia e il modo d’agire in consonanza con l’ambiente.
Il tonfo di Liberi e Uguali alle elezioni politiche del 2018, ancor più del costante e progressivo ridimensionamento del PD, è la rappresentazione più efficace del fatto che il paradosso del successo coinvolge, prima o poi anche i partiti politici. Molti partiti in tutto il mondo perdono “solo” perché sono vecchi, perché continuano ad utilizzare vecchi schemi; altri vincono “solo” perché sono nuovi, anche quando non si capisce bene la solidità dei nuovi schemi ma, “almeno ci provano”.
Fino a qui le parti chiare e luminose del quadro, che tutti possono (potrebbero, dovrebbero) capire con facilità. Le parti più scure e dai tratti meno nitidi ci dicono che il PD non ha uno o due “problemi specifici” ma molti di più e che la sola costruzione di un catalogo dei problemi farebbe fare un passo avanti alla comprensione della situazione in cui si trova oggi questo partito. Come ho già detto, seguendo il mio maestro Michel Crozier: solo comprendendo a fondo la vera natura dei problemi da risolvere è possibile trovare soluzioni adeguate; se si parte dalle soluzioni, che siano adeguate è improbabile o del tutto casuale.
In palio c’è la “Lotteria Europea della Sinistra” alla quale provo a concorrere, uno tra i milioni, comprando il biglietto del “catalogo dei problemi specifici del Partito Democratico italiano”.
Senza alcun ordine (di priorità, di rilevanza, di complessità) il catalogo, nella più classica delle tradizioni e in modo del tutto casuale e non voluto a priori, si è rivelato essere un decalogo, al quale corrisponderanno altrettanti paragrafi di approfondimento:
I Leadership
II Correnti
III Pluralismo
IV Sintonia
V Radicamento
VI Nemico
VII Masochismo
VIII Opposizione
IX Comunicazione
X Ragionevolezza
6.1 La questione della leadership
Il caso del PD è una versione originale del problema della routinizzazione del carisma, che ancora non conosciamo e al quale nemmeno l’ottimo Weber aveva pensato: il suicidio del leader.
Renzi emerge come leader perché propone una visione, una strategia molto chiara e netta.
Se vogliamo uscire dalla situazione di stallo in cui si trova il Paese e rilanciarlo in Europa e nel mondo dobbiamo “rottamare” non solo il nostro partito ma anche tutte le vecchie istituzioni cristallizzate e cristallizzanti del secolo scorso (sindacato, Confindustria, corpi intermedi, magistratura, scuola e insegnanti, banche e banchieri).
Mentre i soliti snob si lamentano della volgarità del termine “rottamare” e di tutto quello che sottende, Renzi stravince le primarie di partito e la prima competizione elettorale che affronta, portando alle elezioni europee il PD al 42%, soglia mai raggiunta in precedenza. Perché vince? Semplicemente perché ha intercettato in modo chiaro e sintetico gli umori, le paure e le speranze di tanta gente, di tanti elettori che non ne potevano più delle liturgie del passato.
Il corrispettivo un po’ più volgare della rottamazione è il “vaffanculo” di Grillo. E anche Grillo stravince. Ci sarà un perché, dovrebbero chiedersi i soliti snob elitisti.
Subito dopo però il leader, un vero leader carismatico perché si è imposto al partito e non è stato designato da nessuno, ha cominciato a perdere sistematicamente, anche quando faceva cose giuste, ragionevoli e opportune, soprattutto per un Paese che, quando lui è arrivato al vertice, navigava in cattive acque.
Perché il vincente Renzi, l’innovatore nel quale molti avevano riposto le loro speranze di cambiamento, comincia inesorabilmente a perdere?
Per due ragioni fondamentali che si comprendono rifacendosi alle antiche tradizioni de “l’arte della guerra”.
Primo errore. Non è mai opportuno e conveniente aprire ufficialmente troppi fronti. E’ meglio attaccare i nemici uno alla volta, cercando per di più di allearti con quelli che in un secondo tempo attaccherai direttamente e con tutta la potenza delle tue armi. Dichiarare guerra a tutti allo stesso tempo, anche nel caso di una guerra giusta e sacrosanta, è una sciocchezza, un vero errore di tattica militare.
Secondo errore. Nonostante il frequente delirio di onnipotenza di molti generali in capo, la storia ci ha insegnato che il vero capo non sta mai in prima fila sul campo di battaglie ma sta nelle immediate retrovie da dove vede meglio e può guidare in tempo reale le sue truppe, evitando possibilmente di farsi ammazzare. Mettere la faccia sul referendum per la riforma della Costituzione è stato un duplice errore. Hai detto al nemico: guardate che il vero bersaglio sono io e non la riforma, che di fatto quasi nessuno ha letto o capito. A tutti, e per di più numerosi nemici che, con straordinaria determinazione si era costruito e ai quali aveva dichiarato apertamente guerra, non è parso vero: trovarsi la vittoria su un piatto d’argento non è cosa da tutti i giorni. Se c’è una cosa sorprendente del risultato del voto del 4 dicembre non è il 60% ma il “sorprendente” 40%, ottenuto nonostante tutto e contro tutti.
Per di più un errore inutile, tipico da boy scout (sono stato anch’io scout in gioventù per ben dieci anni e posso affermare di conoscere quel mondo e i valori seri e profondi che lo ispirano ma che non hanno mai fatto vincere nessuna guerra) per una semplice ragione: chiunque avesse perso un qualsiasi referendum di tale importanza avrebbe dovuto dimettersi.
Se mi è permessa una brevissima parentesi di colore, vorrei richiamare l’attenzione sulla straordinaria somiglianza tra Renzi e Grillo e tra Renzi e D’Alema. Così come Grillo, Renzi ha mandato tutti affanculo. Cosi come D’Alema, lo stratega che non mai vinto una guerra giusta, anche Renzi ha perso la “sua” guerra giusta.
Nella sostanza Renzi ha perso perché a voluto combattere contemporaneamente su troppi fronti interni ed esterni al partito con una dotazione di armi non adeguata e senza nessuna alleanza. Il “solo contro tutti” vince solo nelle leggende. Nella realtà il solo contro tutti configura la terza forma di routinizzazione del carisma, quella che abbiamo già etichettato come “suicidio” del leader.
Comunque alla fine Renzi si è dimesso da capo del governo e da segretario del partito. Dimissioni però non risolutive, tutt’altro, perché nessun leader può dismettere quelle caratteristiche assolutamente personali che lo hanno reso carismatico. Il carisma può indebolirsi, può appannarsi, può essere riconosciuto da un numero decrescente di seguaci (vedi anche Berlusconi e D’Alema) ma, per i fedelissimi, amici o nemici che siano, permane a tempo indeterminato.
“Farò il semplice senatore di Scandicci” che, provenendo da una boy scout in servizio permanente potrebbe anche essere un proposito sincero, è in realtà un’ipotesi impossibile. Anche volendo nessuno può rinunciare alle sue caratteristiche personali, direi quasi esistenziali, in qualsiasi contesto si trovi ad operare: leader si nasce e “ad impossibilia nemo tenetur”.
Questa situazione, abbastanza atipica, di strutturale successione-non successione, porta direttamente ad affrontare un secondo problema specifico che è quello delle correnti.
6.2 Le correnti
Le correnti sono una vecchia conoscenza della politica, dell’organizzazione interna dei partiti. Solo i partiti autoritari e monolitici non conoscono e non riconoscono esplicitamente le correnti: chi dissente, chi potrebbe col tempo far nascere una corrente, viene più o meno brutalmente espulso o messo nella condizione di non nuocere.
Tutti i partiti del ‘900 conoscevano e riconoscevano le correnti: miglioristi e ingraiani; autonomisti e lombardiani; morodorotei e donatcattiniani. Ma le correnti hanno una curiosa caratteristica: come i serpenti cambiano pelle a seconda delle stagioni. Quando il partito, qualunque partito, si trova all’opposizione, le correnti sono soprattutto luoghi del pensiero, della strategia, della visione, della ricerca dei modi più adeguati per provare a vincere. Viceversa quando il partito è al governo le correnti sono i luoghi principi della lottizzazione, delle tattiche spicciole e di breve respiro per occupare il numero maggiore possibile di posizioni che contano, dentro e fuori il governo (RAI, aziende pubbliche, enti di varia natura).
Dopo le dimissioni di Renzi, quindi quando ancora il PD era al governo, è iniziata una corsa alla segreteria che, per molti aspetti ha del surreale. Sul piano procedurale: segretario o reggente; assemblea o congresso; primarie o assemblea o congresso; segretario leader del partito o anche leader per il governo; elezione aperta a tutti o solo agli iscritti in regola con il pagamento della tessera; subito o dopo qualcosa (elezioni nazionali, amministrative, europee, nascita del nuovo governo); a scadenza ravvicinata o a scadenza statutaria; con le stesse regole del congresso precedente o con nuove regole che scriverebbe una nuova commissione; ma la commissione, composta prevalentemente da quelli che hanno vinto il congresso precedente o da quelli che potrebbero vincere il prossimo!
Insomma, un bel casino, espressione tanto volgare quanto, in politica, efficace: dal latino vulgus, cioè popolo.
Guardando al PD non vediamo un delfino, anche piccolo perché appena nato, ma un vero e proprio acquario con tanti pesci di tutte le forme e dimensioni. Per quelli che non hanno mai visitato un acquario ma guardano tanto la televisione, un vero e proprio talentcon decine e decine di concorrenti, in parte autocandidati e in parte spinti da parenti e amici. Senza alcun ordine logico o cronologico: Martina, Chiamparino, Zingaretti, Serrracchiani, Del Rio, Orlando, Emiliano, Franceschini, Gentiloni, Bonaccini, forse ancora Renzi, ed altri che non ricordo, e la trasmissione non è ancora ufficialmente iniziata.
Quando un partito si presenta alla successione in queste condizioni, dove l’unica cosa che accomuna tutti i 10 e oltre aspiranti al trono è la solita litania: “Dobbiamo capire perché abbiamo perso, dobbiamo tornare tra la gente, nei circoli (dove vivacchiano sonnacchiando quelli che comunque ci votano); dobbiamo ricostruire l’alleanza con i nostri vecchi compagni di strada (che sono gli unici che riescono a perder più di noi); dobbiamo ricostruire un rapporto forte con il sindacato (i cui iscritti votano prevalentemente Lega e 5 Stelle) da un lato capisce che la situazione, checchè ne dica, o direbbe, Flaiano, questa volta è sia seria che grave, dall’altro si pone un paio di domanda. “Non sarebbe meglio porsi prima il problema del perché continuiamo a perdere, piuttosto che arrivare di corsa alla soluzione del nuovo segretario che, chiunque sia, non saprebbe nemmeno qual è la nuova linea vincente (si spera) del partito?” e, comunque, “non sarebbe (stato) meglio cominciare a riflettere sul perché abbiamo perso così malamente, cosa che anche un orbo ha visto chiaramente, piuttosto che sbranarci al nostro interno sulle procedure invece che sulle idee, continuando all’esterno una campagna elettorale finita da tempo, che probabilmente non tornerà tanto presto, e che ha già chiaramente dimostrato di essere perdente, visto che tutte le accuse che continuiamo a rivolgere ai nostri avversari sono proprio le ragioni per le quali gli elettori hanno scelto loro e non noi?” Ah saperlo, saperlo!
Nell’attesa che qualche dirigente si distragga dalla lotta quotidiana tra i polli di Renzi (amici e nemici) e provi a dare una risposta a queste due domande che credo interessino tanti (dirigenti, militanti, elettori, osservatori, e, persino, sotto sotto anche gli avversari del PD) affrontiamo un altro problema specifico strettamente connesso a quello delle correnti: il pluralismo.
6.3 Il pluralismo del partito
Non c’è dirigente del PD che apra o chiuda il suo intervento, con il quale cerca di “massacrare” pubblicamente l’avversario interno del giorno, che non si concluda con l’elogio del pluralismo, del dibattito libero e democratico che, al di là delle divergenze, ci accomuna tutti e ci distingue dagli altri partiti (ovviamente) non democratici.
Di fronte a questa affermazione a me viene qualche perplessità, qualche dubbio.
Avevo sempre inteso che il carattere plurale di un partito dipendesse dalle sue origini e cioè dal fatto che quando ha preso vita ha “messo insieme” con fatica culture, esperienze, valori, ideali, diversi e che spesso in passato erano stati anche fortemente antagonisti. Operazione difficile e faticosa perché presuppone la volontà e la capacità, non di fare un cartello elettorale, bensì di dare vita ad un nuovo organismo che amalgama e supera le contrapposizioni di un tempo. Un’operazione per molti versi più culturale che politica.
Ora mi pare di capire che quando si parla di partito plurale il PD intenda un partito in cui chiunque può dire quello che vuole (ovviamente sempre pubblicamente), schierarsi come gli pare, e anche votare contro la posizione ufficiale del partito stesso, perché il partito plurale e democratico non espelle nessuno, nemmeno quelli che hanno fatto di tutto per farsi espellere e ci speravano.
Il dubbio riguarda il fatto che pensavo che oltre che a “sintesi di culture e radici diverse” il pluralismo si riferisse al fatto che in democrazia una pluralità di partiti competono per affermare la loro visione del mondo aggregando e organizzando forze tendenzialmente omogenee e convergenti.
Non c’è bisogno di essere autoritari o antidemocratici per realizzare che, nella competizione politica, ci dovrebbe essere un limite all’eccesso di posizioni tra loro profondamente diverse quando non opposte. Non per una ragione etica o estetica; semplicemente per il fatto che questo pluralismo esasperato confonde elettori e militanti che, non perché ignoranti o male informati (anzi fin troppo informati sulle sottigliezze che distinguono una corrente dalle innumerevoli altre), non capiscono più quale sia la posizione e la prospettiva del partito che dovrebbero votare. E, alla lunga, se non lo capiscono non lo votano.
6.4 Sintonia
La sintonia è la capacità di un partito di percepire, cogliere, sintetizzare e riproporre gli umori della gente, del popolo, degli elettori. E’ il principio basilare della democrazia: gli individui, i gruppi, le organizzazioni, esprimono più o meno consapevolmente i loro bisogni, i loro desideri, le loro paure; spetta ai partiti cogliere questi segnali, rielaborarli e trasformarli in messaggi, programmi, slogan con i quali chiedere voti e consensi.
Chi ha una maggiore capacità di mettersi in sintonia con l’elettorato prende più voti.
Detta così sembra semplice, in realtà bisogna tener conto di alcuni aspetti importanti.
Tutti gli individui costruiscono le loro convinzioni non sulla realtà ma sulla percezione che hanno della realtà. Se uno percepisce che il o la partner lo sta tradendo si ingelosisce, anche se non solo non è vero ma, ma ci sono a ben vedere prove evidenti che così non è. La percezione prevale sempre e comunque sulla realtà, sulla verità. La paura dei migranti, quando questi fanno oggi quello che noi abbiamo fatto due-tre generazioni orsono, quando sono meno numerosi che negli altri paesi europei, quando sono da diversi mesi in drastico calo, dimostra con chiarezza il rapporto tra percezione e realtà. Lo stesso dicasi per l’euro, per le banche, per la disoccupazione. La realtà, i fatti non contano, contano le percezioni. Una legge universale potrebbe essere che mentre i partiti di opposizione “lavorano” chiaramente sulle percezioni, anche con estrema spudoratezza sapendo perfettamente spesso di mentire o di travisare i fatti, quelli al governo “lavorano”, o cercano di lavorare, sulla realtà per giustificare e legittimare il loro operato e sottolineare i risultati ottenuti. Su questo tema, assolutamente rilevante, torneremo nell’ultimo paragrafo.
Per cogliere gli umori della gente i partiti hanno bisogno di “sensori”. Il sensore classico per eccellenza è sempre stato l’insieme delle articolazioni periferiche (territorio e/o luogo di lavoro) dell’organizzazione del partito, insieme a tutte le organizzazioni che, nel secolo scorso, chiamavamo “collaterali”: sindacati, associazioni di categoria, cooperative, associazioni sportive, culturali e ricreative, unite al partito di riferimento da quella che, sempre nel secolo scorso, chiamavamo “cinghia di trasmissione”. Per varie ragioni, che sarebbe qui troppo lungo ricordare, quella cinghia di trasmissione si è rotta ed è stata sostituita dall’idea di “partito leggero” e/o dall’uso sistematico della rete e dei social, fino a ipotizzare la “democrazia diretta della rete”. L’unico partito che è rimasto legato alla vecchia concezione del ruolo dell’organizzazione periferica come sensore è la Lega che non a caso viene spesso definita, e non a torto, un partito leninista, non per le sue idee ma per la sua organizzazione. Gli altri hanno abbandonato la centralità dell’organizzazione per privilegiare il rapporto diretto tra leader ed elettori (quello che chiamiamo normalmente “personalizzazione” della politica o, “disintermediazione” della politica) con un uso più o meno “abile” delle nuove tecnologie.
L’ultimo aspetto che vale la pena richiamare è che la diversa qualità dei sensori utilizzati da ciascun partito dipende, in prima istanza, dalla concezione che gli stessi partiti hanno della democrazia.
Il modo più semplice per cogliere questo aspetto è la distinzione che viene fatta comunemente tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa che, in modo più volgare, corrisponde esattamente alla distinzione tra populisti ed elitisti. Ma queste distinzioni ne sottendono una più rilevante e classica e cioè se compito dei partiti sia quello di assecondare e dar voce alle percezioni del popolo, oppure sia quello di orientare, “governare” un popolo, per definizione non competente.
Nell’un caso il partito non è niente di più che un “amplificatore”; nell’altro è un “pedagogo” che agisce in nome e per conto del popolo stesso, sapendo cosa sia meglio fare per tutelarne gli interessi.
Che sia più giusta e democratica l’una o l’altra concezione non è tema che voglio affrontare in questa sede e ciascuno può pensarla come meglio crede, però vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che negli ultimi tempi nel mondo Occidentale tendono a vincere di più i populisti rispetto agli elitisti. La ribellione di quelli che nel secondo capitolo abbiamo chiamato gli incompetenti nei confronti dei competenti è una delle tante novità di questo secolo che, tra le altre cose, ha segnato la fine della funzione pedagogica dei partiti di massa, dalla loro apparizione nell’arena politica ai primissimi del ‘900, fino alla fine dello stesso secolo.
Il problema del PD è che da un lato è culturalmente figlio del partito pedagogico di massa, dall’altro ha pensato che la modernizzazione consistesse nell’abbandonare ogni forma, anche leggera, di collateralismo, cioè senza cinghia di trasmissione, e che, pur mantenendo una concezione elitista, fosse sufficiente investire sul partito leggero, sulla disintermediazione, sulla personalizzazione. Al momento i fatti non gli hanno dato ragione.
6.5 Radicamento
La differenza tra sintonia e radicamento è sottile e certamente quello che esprimono i due termini è strettamente collegato. In estrema sintesi possiamo dire che la sintonia è la percezione degli umori di tutta la gente, mentre il radicamento è la percezione degli umori “della mia gente”, quella con la quale ho un da sempre un rapporto privilegiato, che qualcuno chiama correttamente “lo zoccolo duro” del partito.
L’accusa rivolta a Renzi e ai suoi governi (il suo e quello di Gentiloni) è quella di aver tradito la “nostra gente” attraverso lo stile, le compagnie, le leggi e le riforme. Abolizione dell’art. 18, introduzione del jobs act, sostegno alla legge Fornero (per altro varata dal governo Monti), molte detrazioni fiscali per le imprese, eliminazione dell’IMU anche sulle case dei più abbienti, ecc.
Anche in questo caso non è mio compito dire quello che penso perché sarebbe comunque irrilevante dal punto di vista elettorale, perchè il mio voto non sposta gli equilibri politici usciti dalle urne, però, come sempre alcuni richiami ai fatti più che alle percezioni.
I partiti che hanno fatto propri gli interessi veri della gente e che si sono ritrovati in Liberi e Uguali hanno perso, come abbiamo già visto, molto di più del PD.
I sindacati, in particolare la CGIL, da tempo vivono la non semplice contraddizione di un gruppo dirigente che si identifica nella sinistra radicale mentre i suoi iscritti votano per Lega e 5 Stelle.
Le grandi cooperative hanno perso da tempo la loro peculiarità storica e sono sempre meno distinguibili dalle altre imprese.
Il mondo della scuola, che da tempo ha dato vita ai Cobas e al sindacalismo autonomo, ha perso buona parte della sua valenza come strumento di socializzazione politica oltre che culturale per diventare sempre più lo strumento per creare posti di lavoro sempre meno qualificati.
Il mondo della scienza, della cultura, delle arti, un tempo organico al partito, ha perso progressivamente la sua egemonia e si è rifugiato in soluzioni sempre più individualistiche.
A questo punto diventa lecita la domanda, che più che una risposta merita un’approfondita riflessione: “E’ proprio vero che il PD renziano ha tradito la nostra gente oppure ha cercato, bene o male, di intercettare nuove formazioni sociali più direttamente espressione della modernità?”; ancora, “E’ lecito parlare di tradimento quando le istituzioni della sinistra classica hanno perso il loro tradizionale radicamento, forse più ancora del partito?” e, in ogni caso: “Ha senso guardare indietro ad un mondo che, a prescindere dalle nostalgie del partito, non c’è sostanzialmente più?”
Se le domande sono lecite, a prescindere dalle risposte che ognuno vorrà dare, significa che anche questo è un problema specifico del PD. Quando Ochetto lanciò la “svolta della Bolognina” e il superamento del nome e del simbolo del PCI, Ingrao e i suoi se ne andarono sostenendo che “Il mondo ha ancora bisogno di comunismo”. Correva l’anno 1989, proprio quello della caduta del Muro di Berlino.
6.6 Nemico
In un bellissimo libro intitolato “Le funzioni del conflitto sociale” Lewis Coser sosteneva, tra le altre cose, che il vantaggio principale di avere un antagonista, un nemico, è che l’organizzazione che lo contrasta si ricompatta al suo interno, proprio per fronteggiare con maggiore forza il nemico comune. Questo vale anche per gli Stati. Per combattere l’invasore tutte le forze di un qualsiasi paese si ricompattano, cercano l’unità d’azione, e rinviano i dissensi interni a dopo che avranno raggiunto il risultato comune. La resistenza al nazifascismo in Italia è un esempio lampante, tra i tanti, della capacità del nemico di aggregare le forze che lo contrastano. Vale per le organizzazioni, per i movimenti, per i partiti e per gli Stati.
Avere un nemico è importante così come è importante sapere individuare con chiarezza chi sia il vero nemico da combattere.
Lega e 5Stelle hanno diversi nemici facilmente identificabili con nome e cognome, gli stessi “nemici”, tra l’altro, della maggior parte dell’elettorato. Non è dunque un caso che siano entrambi partiti a bassa conflittualità interna e in sostanziale crescita
Il PD non ha (più) nemici “puntuali” ma solo fenomeni sociali generali da contrastare (il disagio, la povertà, la disoccupazione, ecc.) rispetto ai quali non riesce a trovare soluzioni soddisfacenti e convincenti. Non prende più i voti di protesta perché, per definizione, si protesta contro qualcuno, individuando di volta in volta il “nemico” che causa, con i suoi comportamenti, quella protesta.
Il problema di tutta la sinistra europea è che ha perso i suoi nemici tradizionali, non è più in alcun modo un “partito” di lotta e cerca invece di proporre soluzioni ragionevoli, eque, compatibili che però, anche quando ottengono un qualche risultato (occupazione, reddito, sviluppo, ecc.) non riescono in alcun modo a scaldare gli animi.
E’ anche un problema che spiega la strutturale conflittualità interna delle mille correnti del PD che, non avendo individuato un nemico comune contro il quale agire collettivamente, rivolgono il naturale tasso di conflittualità di un partito al loro interno. E perdono voti.
Il nemico va individuato con attenzione. Identificare oggi Lega e 5Stelle come nemici sarebbe un errore grossolano. In una democrazia formalmente perfetta come la nostra i partiti sono veramente rappresentativi degli elettori che li votano. Quindi il nemico vero sono gli elettori che hanno votato Lega e 5Stelle. Ma, sempre in democrazia, gli elettori non si possono combattere e non si possono insultare. Bisogna invece innanzitutto conoscerli, capirli e, infine convincerli perché alla scadenza successiva scelgano in altro modo
6.7 Masochismo
L’attuale assenza di un nemico che induca il partito a compattarsi si innesta in una straordinaria capacità dello stesso partito di farsi male da solo. Il fenomeno è talmente conosciuto che basterebbe il titolo per richiamarlo in maniera quasi esaustiva. Mi limito dunque ad una sola breve considerazione.
Un altissimo grado di conflittualità interna è certamente nei cromosomi della sinistra, tanto da poter essere considerato geneticamente iscritto nel DNA di tutti i partiti di sinistra da sempre e ovunque e si traduce, con straordinaria regolarità, in scissioni vere e proprie. L’impatto negativo che un’alta conflittualità interna produce all’esterno, in passato era mitigato dal famoso “centralismo democratico”. Per chi è troppo giovane per ricordare il significato di questo ossimoro diciamo che nel vecchio PCI esistevano, come è assolutamente fisiologico in qualsiasi partito democratico, “correnti di pensiero” diverse. Queste diverse correnti si confrontavano e spesso si scontravano anche duramente negli organi di vertice del partito ma, nel chiuso e nel riserbo degli stessi organi. Una volta presa la decisione a maggioranza, quella era la posizione di tutto il partito che, per questa ragione, appariva all’esterno tanto monolitico quanto centralista.
Lega e 5 Stelle sono certamente “centralisti” e non so quanto effettivamente democratici al loro interno, e vincono. Invece (quasi) tutte le correnti del PD sono ancora convinte che trasmettere tutti i giorni all’esterno i sensi di una elevata conflittualità interna faccia bene alla salute, e perdono.
6.8 Opposizione
All’esito della nascita del governo Lega-5 Stelle qualcuno, non ricordo chi, disse che stare all’opposizione per il PD sarebbe stato un problema perché non era più abituato. Problema però che hanno tutti i partiti in tutto il mondo quando passano dal governo all’opposizione ed è un problema più cognitivo che politico. Se uno “per mestiere” si abitua a cercare di risolvere i problemi invece di crearli, matura col tempo un atteggiamento mentale la cui logica intrinseca è difficile dismettere in tempi brevi: anche per stare all’opposizione in modo efficace ci vuole un po’ di allenamento. Nel frattempo, dati i numeri, l’opposizione del PD sarà poco più di una testimonianza simbolica.
Tutti i partiti all’opposizione, nessuno escluso, recitano sempre la solita litania: “La nostra sarà una opposizione dura ma seria e responsabile”. Tutte balle. Il tipo di opposizione dipende ancora una volta dall’aritmetica parlamentare, dal numero dei deputati e senatori. Se non hai nessuna forza ti limiterai a sbraitare accusando demagogicamente il governo di tutte le nefandezze possibili immaginabili (magari anche quando fa le stesse cose che facevi tu in precedenza); se hai un po’ più di peso stai in allerta per cogliere la prima occasione in cui il governo può essere messo in minoranza su un singolo provvedimento (non serve a nulla ma fa bene alla salute); se invece hai dei numeri consistenti, il che vuol dire che rappresenti comunque una parte significativa dell’elettorato, contratti più o meno apertamente con il governo in una logica di scambio, di do ut des(è la storia dei rapporti tra DC e PCI nel secolo scorso).
Vista la straordinaria quantità di sciocchezze che si sentono dire da una parte e dall’altra vorrei ricordare che i cittadini, con una legge elettorale di impronta proporzionale, con il loro voto, non formano il governo e non collocano nessuno all’opposizione; molto più semplicemente si limitano a segnalare quale partito, in quel preciso momento piace loro di più o dis-piace loro di meno. Da questa libera espressione di apprezzamento per l’uno o per l’altro consegue il peso che ciascun partito avrà in parlamento. Da qui i partiti, e non più i cittadini, cominciano a negoziare e sono loro, i partiti e i gruppi parlamentari, che, a seconda dei rapporti di forza e delle compatibilità programmatiche, decidono chi sta al governo e chi all’opposizione.
In questo modo gli stessi partiti indicano quale dovrebbe essere nel Paese il consenso popolare nei confronti del governo. Dico dovrebbe perché la formazione di una coalizione dopo e non prima delle elezioni potrebbe ragionevolmente indurre alcuni di quelli che hanno votato in un modo a cambiare idea proprio perché non apprezza quella coalizione che non era assolutamente prevista prima delle elezioni. Utilizzando i dati “vecchi” delle elezioni, si può ipotizzare che il consenso popolare per il governo nel momento della sua composizione, oscilli intorno al 50%, cifra che risulta dalla somma dei voti presi dai due partiti alle elezioni. Dico oscilli perché nel frattempo diversi elettori grillini, ad esempio, potrebbero aver deciso che mai e poi mai sosterranno un governo con la Lega ma, al contempo, altri salgono e saliranno sul carro dei vincitori. Stiamo comunque parlando di un 50% di cittadini che non sostengono il governo, alla faccia di coloro che dicono che questo è il governo voluto dagli italiani.
L’aritmetica parlamentare, al di là della retorica quotidiana, “costringe” il PD ad un ruolo di testimonianza più che di opposizione “consistente”. Al contempo però l’aritmetica sociale dice che almeno il 50% degli elettori si colloca, per una ragione o per l’altra, all’opposizione. Il problema del PD è quello di capire non tanto la formula organizzativa che possa trasformare tanti individui in una vera e propria opposizione, quanto di capire e decidere su quali temi e su quali istanze costruire una nuova “narrazione programmatica”. Insistere sui temi che hanno portato alla sconfitta non ha molto senso: gli elettori non hanno sbagliato, hanno scelto. Partire dall’assetto organizzativo prima di aver definito una visione, una strategia di massima è sempre sbagliato e lo dice il sottoscritto, esperto di Teoria delle Organizzazioni. Partire dal logo: “Fronte europeista” o “Fronte repubblicano” potrebbe essere inopportuno, poco scaramantico: i più anziani ricorderanno che fine fece il “18 aprile” (titolo di una famosa, prima del voto, canzone politica dell’epoca) quella “gioiosa macchina da guerra” chiamata “Fronte popolare”.
Questo problema specifico del partito democratico è particolarmente complesso, però, se il governo in carica dovesse durare a lungo, ci sarebbe tutto il tempo di “pensare prima di agire”. Quindi, una straordinaria opportunità per capire davvero cosa è successo e perché è successo, e cosa si possa e/o si debba fare per il futuro.
6.9 Comunicazione
Nella società moderna, non a caso definita dai sociologi “società della comunicazione”, la comunicazione riveste un’importanza strategica in tutte le attività umane (scientifiche, commerciali, turistiche, ecc.). Ovviamente è cruciale anche in politica. Il problema della comunicazione è sempre stato, quello del mix tra “fumo e arrosto”, tra messaggio e contenuto, tra evocazione e sostanza. Questo problema si complica nel momento in cui le nuove tecnologie comportano, come abbiamo già visto, un maggior peso sociale e politico degli incompetenti rispetto ai competenti e l’accesso al “discorso politico” di migliaia di persona che in precedenza non sapevano come e dove parlare di politica.
Quando si imposta la campagna di comunicazione di qualsiasi partito bisognerebbe avere sempre a mente due cose tanto semplici quanto fondamentali: la gente, i cittadini, gli elettori non hanno memoria e non leggono.
Non hanno memoria, almeno in politica, perché pensano al futuro, soprattutto, quando votano. Non ricordano e non amano ricordare quanto si stava peggio “prima”; non ricordano e non amano ricordare i benefici diretti, materiali, economici che hanno ottenuto “prima” delle elezioni (80 euro, posti di lavoro, stabilizzazione, assunzioni, riduzione di tasse e contribuiti, coppie di fatto e testamento biologico e così via); non amano che qualcuno cerchi di far nascere in loro sensi di colpa o pretenda segni evidenti di riconoscenza:
Non leggono, né libri né giornali; le nuove generazioni ormai non guardano nemmeno la televisione perché preferiscono informarsi, quando proprio vogliono informarsi, sulla rete, sui social, utilizzando i potentissimi dispositivi tecnologici che hanno sempre con sé.
Presentarsi alle elezioni con un programma di 100 punti di cose fatte e altrettanti di cose da fare, viola apertamente i due principi semplici e fondamentali.
Non aver (ancora) compreso che la comunicazione politica, costruita sull’ipotesi che i destinatari del messaggio leggano spesso e volentieri ed amino ricordarsi di come si stava prima, più che un problema specifico è un vero e proprio errore.
Anche l’utilizzo improprio dei social(Facebook e Twitter) è un problema: un segretario di partito e Presidente del Consiglio può e deve usare i sociale anche stampare virtualmente e quasi quotidianamente una news letter, inviata in automatico a miglia di destinatari; non credo però che la stessa metodica funzioni se, a “produrre” le notizie è “un semplice senatore di Scandicci”
6.10 Ragionevolezza
Molti dei problemi che abbiamo preso in esame nei paragrafi precedenti possono essere sintetizzati in un solo concetto: un eccesso di ragionevolezza in politica non paga. Questo è il vero grande problema non solo del PD ma di tutta la sinistra occidentale. Le ragioni sono molteplici, le abbiamo già rese esplicite in più occasioni e non voglio tornarci su per non esasperare o annoiare il lettore.
Vorrei però richiamare l’attenzione su due aspetti.
La ragionevolezza, in politica, non è una caratteristica della personalità; non è legata più di tanto all’età anagrafica; non si acquisisce con lo studio. La ragionevolezza è uno “stato di necessità”. Se sei povero, disoccupato, precario, malpagato, deluso, infelice, arrabbiato, nessuno può “ragionevolmente” chiederti di essere “ragionevole”. Può permettersi di essere ragionevole chi, non necessariamente ricco, vive una vita soddisfacente, sicura, tranquilla, senza nessun tipo di paura o di angoscia per il futuro, insomma tutto quello che, viceversa, spinge le persone a votare per quelli che protestano più di tutti e vogliono spaccare il mondo. Quelli che non hanno nulla da perdere, sono autorizzati a non essere ragionevoli e a sperare che dopo che il mondo sarà stato eventualmente spaccato, staranno comunque meglio di prima. Che la storia abbia dimostrato che non è andata sempre così è irrilevante perché non la conoscono perché non leggono e non hanno memoria e comunque spes ultima dea
.
Ho l’impressione, ma la cosa andrebbe approfondita, che quella della ragionevolezza possa essere una interpretazione più convincente rispetto a quella normalmente usata per capire la questione della differenziazione del voto tra centro e periferia. Dire che i ricchi stanno in centro e i poveri in periferia è una eccessiva semplificazione: i veri ricchi stanno in collina, in campagna, nelle loro grandi ville. Non pochi “poveri” stanno ancora in centro perché hanno ereditato la casa o l’hanno acquistata con il mutuo, quando i prezzi di entrambi erano più bassi. In centro vive soprattutto quella che potremmo identificare come “borghesia” professionale, esattamente quella che una volta era identificata con il ceto medio o medio alto. La caratteristica principale di questo ceto è da un lato una sostanziale tranquillità economica e dall’altro l’assenza di paure per il futuro. Chiunque vinca, qualunque governo arrivi, per varie ragioni non riuscirà a stravolgere le mie condizioni di vita. Ma è anche il ceto che più di ogni altro, spesso per obbligo professionale, è abituato a leggere: rappresenta dunque quella parte, piccola e minoritaria, che legge e che ha memoria, diretta o indiretta, attraverso la lettura. Un target “piccolo” ma tutt’altro che marginale da tanti punti di vista, del sostegno del quale varrebbe la pena, almeno, non vergognarsi.
Voglio chiudere con una metafora allegra.
Se ci pensate bene il cinema assomiglia molto alla politica, spesso non a caso chiamata “teatro o teatrino”. Chiediamoci allora cosa preferiscono gli spettatori e sulla base di quali criteri decidano quale film andare a vedere.
I dati di botteghino dicono chiaramente che gli amanti del cinema preferiscono film: di avventura, comunque d’azione, con tanti morti oppure con tante occasioni per ridere, dove è chiaro fin dal principio chi è buono e chi e cattivo ma al contempo dove non è disdicevole parteggiare per i cattivi: i ladri invece che le guardie, gli assassini invece che le vittime, i furbi invece che gli onesti. Però tra indiani e cow boy come la mettiamo?
Pochi amano quei film, tipicamente francesi ma anche noi non scherziamo, che in qualche modo ti ripropongono sempre la solita questione della umana sofferenza interiore, una sorta di seduta psicanalitica cinematografica che servirà a prendere tanti premi, a animare le conversazioni dei salotti buoni, ma che la maggior parte degli spettatori considerano semplicemente una palla, una corazzata Potomkin alla Fantozzi (per altro un bellissimo film, quello originale, che consiglio davvero a tutti).
E’ davvero banale e forse superfluo ricordare a questo punto che tutti quelli che vanno al cinema, esclusi i minorenni, si trasformano periodicamente da spettatori in elettori.
Chi ha orecchie per intendere intenda.